Paesaggio piovoso presso Trinidad

A Corumbá la calura è una coltre compatta che ricopre tutto e tutti. Fino alle piogge, che qui, nelle profondità tropicali del Brasile, vomiteranno acquazzoni spessi come sipari. Per le vie squadrate del centro si trascinano pochi corpi sudati. Giù al fiume, grasso come melassa, barconi attendono i tour di domattina nei dintorni, il Pantanal, una ‘mezza Italia’ di paludi ghiotta per la fauna selvatica.

Da qualche tempo mi sono messo sulle tracce – purtroppo quasi inesistenti – del grande bandeirante Antônio Raposo Tavares e della più ardita bandeira a noi nota, che partì (come tutte le spedizioni del genere) da San Paolo verso la fine del 1647 per concludersi alle foci del Rio delle Amazzoni. Un’impresa piuttosto faticosa anche oggigiorno.

L’‘infame’, eloquente nomignolo affibbiato dai gesuiti a Raposo, che con le sue bandeiras seminava da decenni il panico nelle loro missioni a caccia di nativi-schiavi per le fazendas paulistane, questa volta aveva infatti altre mire. La Corona portoghese ‘in persona’ l’avrebbe incaricato di trovare un modo di mettere le mani sull’argento spagnolo di Potosí, o comunque ‘almeno’ di scovare l’Eldorado, celato – si diceva – nelle imperscrutabili viscere del continente.

Fu un fallimento, all’epoca, ma preconizzando un Brasile ancor di là da venire, quest’impresa venne in seguito detta la ‘bandeira dos limites’, dei confini. Di fatto, seguì almeno in parte il periplo di quell’‘isola Brasile’ postulata dagli antichi cartografi portoghesi, un territorio immaginificamente delimitato da un concatenarsi di corsi d’acqua, dal Rio de la Plata alla foce del Rio delle Amazzoni, come un’isola, appunto.

Monumento al centro della piazza di San Ignacio. Si noti il missionario, con la croce e la mano sulla spalla del nativo che suona, docile, il violino. Altri nativi lavorano e il soldato difende il gruppo.
 

Ai tempi del suo passaggio, Corumbá era Puerto de San Fernando, o semplicemente el paso, perché punto consueto di attraversamento del fiume Paraguay lungo il ‘cammino di San Tommaso’, una pista ancestrale che dall’Atlantico raggiungeva le Ande. Era la fine del 1648 e quegli uomini, dopo mesi consumati nel sertão, marciando accanto al percorso fidato di grandi fiumi come il Tietê (che chiamavano Anhembi) e il Paraná (la ‘grande acqua’), qui furono costretti ad avventurarsi tra le fauci e le spire di queste paludi, acqua alla barba e vettovaglie in capo.

Ma la vera esplorazione era oltre il fiume, laddove nessun paulistano aveva mai messo piede.

Anch’io, come Raposo in cerca di scoperte, mi sdogano in territorio boliviano, all’epoca l’Alto Perù. A Puerto Quijarro mi aspetta il ‘treno della morte’, lento ma stipato di vita vera – commercianti, emigranti, studenti in ferie –, che mi recapiterà nel cuore della notte a San José de Chiquitos, un pueblo polveroso da Far West, il cui unico fregio è un’antica chiesa di pietra.

Da queste parti, la Chiquitania, si colloca lo spartiacque dei due immensi bacini idrografici sudamericani, il rioplatense, che lascio alle spalle, e l’amazzonico, che percorrerò per intero, dai contrafforti andini alla foce del Rio delle Amazzoni. Mentre il sonno profondo del locandiere mi costringe quasi a sfondare il portone per il solito misero giaciglio di legno, mi sembra di sentire l’odore della mia preda. Proprio qui vicino, sulle alture della Serrania de Santiago, Raposo pose il campo in attesa della buona stagione, perlustrando e seminando mais e manioca (il ‘pane della terra’) per gli incerti mesi a venire, come si usava in questi casi.

Io mi ci trattengo il tempo di visitare i paesini di Santa Ana e San Ignacio de Velasco, che con San José e altri fanno parte del circuito delle missioni gesuitiche chiquitane, fondate dalla fine del Seicento e inserite nel patrimonio dell’UNESCO nel 1990 – dove tra l’altro fu girato il film ‘Mission’, di Roland Joffé. In tutti è bello riconoscere l’antico: piazza quadrata con croce, chiesa (restaurata dagli anni ’70), abitazione dei padri. Gli edifici intorno, già magazzini e dimora dei nativi ‘indottrinati’, sono ora negozietti, alberghi e molli osterie all’ombra di toboroche d’epoca, enormi alberi dal tronco spinoso e panciuto come una fiaschetta.

La classica sistemazione in un battello fluviale. Queste imbarcazioni sono l’unico mezzo di trasporto pubblico dell’immensa regione amazzonica, oltre agli aerei.

Dalla modernità ovattata di Santa Cruz de la Sierra, la maggiore città boliviana (ha superato La Paz negli anni ’90), la mia nuova rotta volge a settentrione, indicandomi la via di Trinidad, capitale della regione del Beni, che sonnecchia sul fondo di un altro pantano infinito. Sulle antiche carte l’Eldorado si trovava proprio da queste parti, tra contrade inespugnabili abitate da nativi così agguerriti che le ultime tribù moxos e baures furono ‘civilizzate’ soltanto una cinquantina d’anni fa. Qui era anche il regno del Gran Paitití, una leggendaria Atlantide continentale patria di una civiltà amazzonica che pare non abbia lasciato che terrapieni e collinette artificiali (zeppe di reperti!), sparsi tra una miriade di meandri e lagune. E, appunto, il profumo misterioso di antichi tesori nascosti.

Il Don Adrián, il mio cargo diretto a Guayaramerin, al confine brasiliano, partirà dal porto di Trinidad, Puerto Almacén, ‘solo’ con altri due o tre giorni di ritardo (e così fanno cinque!), e ci metterà “poco più di una settimana”, secondo Mario, capitano tuttofare dalla maglietta impataccata. “Aspettiamo un carico di bestiame da Santa Cruz, ma la strada è interrotta da un’inondazione”. Viaggeremo lungo l’idrovia del Mamoré, la ‘madre delle acque’, che con mille e mille anse drena piogge e detriti andini verso il Guaporé e il Rio Madeira. E osserverò Raposo marciare al nostro fianco.

Sciabordando nelle torrenziali precipitazioni estive, ormai membro ad honorem della bandeira, dopo più di un mese rientro in territorio brasiliano, là dove la pampa alluvionata cede al disboscamento selvaggio di fazendas grandi come Stati, quindi alla foresta impenetrabile. Le tenui orme dell’‘infame’ mi fanno scivolare nelle immensità verdi e acquose del continente a bordo di battelli di legno imbottiti di gente, gli autobus dell’Amazzonia, dove le strade sono fiumi e il poco asfalto se lo mangia Madre Natura. “Per fortuna!”, dice Fernando, casuale compagno di viaggio ed ecologista locale, “ogni strada significa camion, seghe elettriche e vacche, vacche, vacche”.

Si viaggia per giorni, si dorme su amache uno accanto all’altro, si mangia a turno sul ponte, spalla a spalla, dalle cucine di bordo, che anziché ottimo pesce di fiume somministrano carne bovina, paradossalmente meno cara, in un mondo che più anfibio non si può.

Dal battello, lungo le distese brune del Rio Madeira e del Rio delle Amazzoni, il fronte verde si srotola interrotto solo di tanto in tanto da qualche palafitta, canoe di caboclos (i meticci locali) mezzi nudi e, più raramente, da cittadine e villaggi dove a volte decido di far tappa.

Via terra, nella selva, è ancora un inferno: fatica, parassiti, serpenti, fiere… Ma allora, navigare era ancor peggio. La riva del fiume era casa di nativi non sempre ospitali, spesso prodighi di frecce e cerbottane al curaro.

Panorama aereo del Beni, una delle maggiori aree alluvionali del mondo, sommersa per diversi mesi l’anno, mentre per il resto dei mesi soffre di una feroce siccità. In particolare, anse del fiume Mamoré.

Tre anni e diecimila chilometri dopo la partenza da San Paolo, la bandeira bussò alle porte della fortezza di Gurupá, avamposto portoghese sulla foce del Rio delle Amazzoni. Dei più di 1300 uomini, tra portoghesi, mamelucos (meticci di bianchi con indios) e indios tupi, non era rimasto che un gruppetto di 59 bianchi e qualche indio, smunti e logori da non riconoscerli.

Io, a Gurupá, ci arrivo in battello e, pur provato, tutto intero. Per me sono passati più di due mesi, ma eccomi come lui al capolinea.

Da qui, come il mio ‘eroe’, anch’io tornerò esausto a San Paolo.

Di lui non ho trovato che le tracce lasciate dalla mia suggestione, ma poco importa.

Il demone del viaggio è qui, sulla mia spalla.

Paolo Brovelli

Battelli in un porto sul Rio delle Amazzoni.