A San Paolo alla ricerca delle origini del Brasile odierno e degli uomini che lo crearono

San Paolo è una città che fa paura.

Per noi, dall’altra parte dell’Oceano, non è che una megalopoli sudamericana. Ma San Paolo è la megalopoli. La maggiore dell’America del Sud e di tutto l’emisfero australe: undici milioni di abitanti, anche senza contare tutti gli altri agglomerati che colano tra collinette e valli come malta tracimata da una betoniera, e che la fanno arrivare a più di venti.

A San Paolo si respira aria gigante. Una foresta di grattacieli che sboccia da un sottobosco di casette in estinzione dalle tegole arancione. Stradoni e raccordi da tener d’occhio per non finir lontano, lombrichi fumosi di camion e auto che scivolano sulle marginal, circonvallazioni lungofiume del Tietê e del suo scolmatore Pinheiros, che quando diluvia s’annega, per ore. La polizia sorveglia dagli elicotteri. La televisione trasmette le immagi­ni dei nuovi senzatetto coi cartoni in mano, sciacquati dai quartieri posticci.

La città corre veloce, davanti a tutti, nel bene e nel male.

Qui è ancora America, ti piaccia o no. Nonostante tutto l’economia gira, l’industria tira, la cultura pienamente cosmopolita germoglia nuovi virgulti ad ogni momento, nei musei, cinema, teatri, al suono del vecchio samba o dell’hip hop più radicale. E i poveri continuano ad arrivare…

San Paolo è un mondo intero, San Paolo esplora e cresce, oggi e domani. Ma anche ieri: è la sua storia, la sua natura profonda, la sua vocazione.

Vicino a dove sto, presso il parco di Ibirapuera, una delle maggiori aree verdi della città, c’è un monumento in pietra grigia. Ci passo spesso accanto. Poggia pesante su un prato sempreverde in mezzo al traffico. È un groviglio di figure umane, severe e cariche di forza, che faticano a sostenere il macigno di se stesse. Inaugurato nel 1953, proprio un anno prima del quattrocentesimo anniversario della fondazione della città, celebra una figura eroica, mitica, quasi da padre della patria, uomini senza i quali il Brasile forse non ci sarebbe stato. È il monumento ai Bandeirantes, di Victor Brecheret.

Bandeirantes, però, sono solo alcuni tra i corpi: quelli a cavallo. Gli altri, in catene, a trascinare una canoa, con donne e bimbi in braccio, sono schiavi, gli indios tupi e guarany, strappati dalla loro terra, che dalla costa arrivava fino ai piedi delle Ande e nel profondo dei meandri amazzonici.

Mentre osservo i visi di granito, sofferenti e crudeli, stagliati sul cielo nuvoloso della primavera australe, quasi in un flash-back seicentesco il paesaggio intorno a me si trasfigura, e ho la sensazione di tornare indietro nel tempo. Il cemento delle torri rinverdisce nella mata atlantica, la foresta pluviale delle origini; i veicoli divengono carri e cavalli, l’odore di carburante si tramuta in quello della guave e dei manghi maturi.

Abbigliati di stracci o di piume, a piedi nudi nel pantano rossiccio e appiccicoso dell’ultima pioggia di marzo, che chiude l’estate, pochi uomini mediterranei barbuti e ispidi e molti dai tratti mescolati d’indio e bianco – tanto indio, poco bianco. Sono i coloni portoghesi con i mille figli avuti dalle indigene, i mamelucos, come sostiene l’antropologo Darcy Ribeiro, la prima vera stirpe di brasileiros moderni. Portano sacchi di derrate e sementi, botti d’acqua, armi, munizioni, pesanti catene… Si pre­parano a partire. S’affannano rapidi, sotto il sole tropicale e sotto gli occhi di chi paga, già padrone del loro futuro, dall’alto della collina. Staranno fuori molti mesi, sfidando natura e indios, a piedi, seguendo come d’uso i sentieri aperti dai tapiri nelle viscere pulsanti di verde, a colpi di machete, o in canoa, lungo gli opulenti fiumi fangosi (Tietê, Paraná) che scivolano verso il centro del continente.

È la bandeira. «Bandiera», il nome con cui s’indicava una spedizione d’esplorazione. Furono quegli uomini, i bandeirantes, i primi che lasciarono la sicurezza delle coste, che si spinsero oltre, nel Cinque e nel Seicento. Furono i veri esploratori di questa parte del continente. Partivano in centinaia agli ordini di pochi, e arrivarono lontano. Fino al Minas Gerais, al Goiás, alla ricerca di oro e diamanti. Fino alle missioni gesuitiche spagnole lungo il Paraná o nella «Chiquitania», nella Bolivia odierna, dove, senza troppo riguardo per Dio e i suoi servitori, razziavano gli indios convertiti e dunque già «ammansiti », braccia che a San Paolo di Piratininga (il nome originario), lontana dalle rotte negriere per Bahia, e isolata dal porto di São Vicente dalla barriera impervia della Serra do Mar, erano sempre poche e ricercate; braccia preziose senza le quali il piccolo abitato di poche centinaia di casette, con gli animali a brucare per le vie, non sarebbe mai diventato quel che è. Voltando le spalle al mare natio e con gli occhi rivolti alla terra, San Paolo, violenta e senza pietà, allora come ora, affamata di spazio e ricchezze, divenne il punto d’origine di una ragnatela di sentieri e rotte che conducevano in un Brasile ancora di là da venire.

Bandeirantes qui, adesso, è molte cose: televisioni, radio, hotel, scuole, squadre sportive, industrie d’ogni tipo; è il nome di varie cittadine dell’interior, e… dell’associazione nazionale dei boy scout! Le vie tracciate dai bandeirantes più illustri sono diventate le autostrade del Brasile moderno: Rodovia Antônio Raposo Tavares, verso il Paraná; Rodovia Anhangüera («vecchio diavolo», soprannome tupi di Bartolomeu Bueno da Silva), verso Brasilia e nel Goiás, dove trovò l’oro. Fiutando tra le figueiras tentacolari, le yucche e le palme che bordano certe stradine dei quartieri ancora bassi, inciampando nelle buche dei marciapiedi rotti, non senza il prezioso aiuto degli odorosi tomi della Biblioteca del Museo do Ipiranga (zeppo di busti di eminenti bandeirantes), ho scovato anche una minuscola casa-museo di taipa-de-pilão (legno intrecciato e fango secco, ancora in uso in molte regioni), la Casa del Bandeirante, in una piazzetta, la Monteiro Lobato, nel quartiere di Butantã (non a caso: «fango secco»), lungo il Pinheiros. Sta lì, come sotto una teca di vetro, in mezzo al verde, con i custodi comunali e un registro delle presenze quasi vuoto, a ricordare a chi forse preferisce dimenticarle le umili radici del più grande Paese dell’America del Sud.

Domani partirò. Andrò dietro alle deboli tracce di uno dei più grandi bandeirantes, Antônio Raposo Tavares, che intorno al 1640, giunto sino all’odierna Bolivia, risalì i fiumi Mamoré, Madeira e il Rio delle Amazzoni, fino a sbucare, dopo tre anni e diecimila chilometri, quasi morto di fatica e stenti, al grande Mare Oceano.

Andrò a caccia di un cacciatore di uomini.

Paolo Brovelli