Verso la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80, Roma attraversava un periodo caratterizzato da elevata vitalità artistica, con numerosi festival ed happening.
Nello stesso tempo, si affacciava alla scena letteraria la generazione che era nata negli anni ’50 e, nel fervore creativo “nascono a Roma riviste, opuscoli, fogli letterari ciclostilati in proprio che, oltre ad essere luoghi d’incontro, sono anche un ‘porto franco’, al di fuori dell’editoria ufficiale” (Giacomozzi 2005, p. 19). Proprio del periodo è la tendenza all’unione e al ‘fare gruppo’ da parte della cultura del tempo, tendenza che raggiungerà l’apice negli anni ’80, mentre nel ’90 la situazione poetica sembrerà più poliedrica e multiforme.
Emerge dunque una comune identità letteraria da parte di diversi poeti, letterati e critici che troverà il proprio centro nelle riviste Braci e Porto Pagano, nelle quali molti dei ‘poetae novi’ sono redattori e autori. Peculiare alle due riviste è di essere state ideate, edite e pubblicate dagli stessi autori, tutti esordienti al tempo e che venivano affacciandosi per la prima volta nella scena letteraria. Le due riviste possono essere considerate fondamentali strumenti e luogo di aggregazione di una nuova concezione della poesia e di una nuova generazione di poeti che avevano molti elementi in comune tra loro, dalla poetica all’età anagrafica; di fianco a queste nuove tendenze, erano attive a Roma anche riviste più ‘tradizionali’, come Nuovi Argomenti, diretta al tempo da Moravia, Bertolucci e Siciliano, e Trame di R. Didier.
Sebbene da parte della cultura ‘ufficiale’ – nelle persone di Fortini, Zanzotto, Rosselli, Bellezza – non sia mancata l’attenzione verso le due riviste espressione del ‘cambiamento generazionale’, tuttavia “non si sono trovate tracce teoriche di questa poesia” (Giacomozzi 2005, p. 21). Gli autori, infatti, non hanno mai prodotto alcun ‘manifesto’ programmatico, né elaborato o resa pubblica la propria poetica; si è trattato dunque di un percorso svolto quasi ‘sottotraccia’,
in cui a parlare erano soprattutto le opere. Oltre a ciò, nessuno degli autori, soprattutto inizialmente, aveva rapporti stabili con i principali media, erano quasi tutti esclusi dal sistema mediatico-culturale del tempo.
I principali temi emersi erano, da un lato, l’esigenza di superare il gesto, poetico e spettacolare ad un tempo, proprio della poesia italiana del periodo. Dall’altro fortissima era la tendenza verso il recupero della parola classica e antica, una parola poetica che fosse, ipso tempore, chiara e comprensibile, che rifuggiva astrattismo, oscurità e l’eccessiva introversione dell’Io poetico su stesso. Di questi autori bisogna poi sottolineare la costante ricerca al recupero di una diversa dimensione linguistica.
Indice dei contenuti
Contro la neo-avanguardia
La critica dei poeti della ‘scuola romana’ si rivolge, in primo luogo, contro gli eccessi dell’avanguardia, contro le forme di sperimentalismo più accentuate. La critica muove sempre dal recupero della lingua e della sua chiarezza. Emerge forse una forma di ‘disimpegno’ politico o di mancata attenzione alla società nel suo insieme, preferendo il dedicarsi allo hortus conclusus della poesia e della parola?
Senz’altro è differente la considerazione dell’arte e della poesia che, nei poeti romani, non è la stessa di quella di autori come Sanguineti, forse il più illustre tra tutti, per i quali fine dell’arte era la ‘giustizia’ e non la ‘estetica’. Per Sanguineti la ‘forma’ era già ‘ideologia’ e, in tal senso, la ‘critica delle forme’ era una delle forme della critica sociale. Al riguardo aveva osservato P. Sollers che “la teoria della scrittura testuale si fa nel momento della pratica di questa scrittura” (Krumm Charvet 1974, p. 104). Sollers, a sua volta, richiamava Lacan sottolineando come ci fossero “tre pratiche che avevano molte probabilità d’essere rivoluzionarie in quanto portatrici d’una funzione di verità: quella del rivoluzionario, quella dell’analista e quella di colui che trasforma la lingua” (Krumm Charvet, 1974 p. 28). La pratica e l’attacco analitico della pratica al sapere comportava che i concetti utilizzati nella pratica non potessero non essere trasformati. La costante sperimentazione delle forme, a livello poetico, rientrava nel più generale attacco alla scienza e all’ideologia borghese.
La concezione della poesia di Damiani e degli altri poeti e critici attivi nelle due riviste era toto genere diversa. Come ricordato da Lodoli a proposito di Damiani, il poeta romano, già ai tempi di Braci, “stava già oltre i linguaggi distruttivi del Novecento, stava prima, stava nella poesia che nomina e salva, che raccoglie e consola” (Lodoli 2013, p. 7).
Il richiamo ai classici
Lodoli, a proposito del ‘richiamo al classico’ contro le eresie dell’avanguardia e del post-modernismo, ha osservato a rispetto all’intera produzione poetica di Damiani: “La classicità nutre questi versi come una madre fa con un figlio: non si tratta di colti recuperi di forme metriche e compositive, di un nobile omaggio alla tradizione, ma di un’adesione profonda allo spirito della poesia più vera, quella che non divaga e non si distrae in inutili acrobazie stilistiche, che non vuole scandalizzare o sorprendere grattando i nervi, ma che rimane costantemente fedele, persino nella sua metrica, al ritmo profondo dell’esistenza” (Lodoli 2013, p. 7).
Nel ricostruire le vicende della ‘scuola romana’ Giacomozzi ha sottolineato come non ci si trovasse di fronte ad una poesia ‘poco impegnata’, malgrado temporalmente si fosse negli anni del ‘riflusso’ e del ‘disimpegno’, del pieno dispiegarsi del consumismo e del dilagare della ‘cultura televisiva’. Si era davanti, piuttosto, al tentativo di ‘riscoprire il classico’ ricercando una lingua nuova mediante la ‘rilettura’ o ‘ la ‘riscoperta’ degli autori della tradizione classica ed italiana.
Contro il postmoderno
Emerge anche la totale estraneità dei poeti romani al postmodernismo. La questione merita di essere affrontata a partire dall’osservazione di Gabriella Sica, secondo la quale, quando gli autori romani iniziarono a scrivere, ‘il Novecento era già finito; più precisamente, nello scritto eponimo pubblicato su Atelier, Sica ha sostenuto che “Perché è evidente per me e per alcune persone che cominciarono a cimentarsi con la parola della poesia all’inizio degli anni Ottanta il Novecento era finito e con esso la modernità” (Sica 2004)
La lontananza di Damiani, Salvia e, in generale, degli altri poeti romani al postmoderno sembra piuttosto accentuata. Oltre a quanto osservato si consideri che, a livello estetico, se nel moderno il paradigma era la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, secondo la notissima teorizzazione di Walter Benjamin, ora invece, saremmo in un universo di ‘immagini’ e propriamente, non esisterebbe più né il reale né l’esperienza, trovandoci piuttosto in una rete di ‘simulacri’. L’arte, venuto meno il ‘soggetto classico’ e ‘omnisciente’ della tradizione occidentale, non potrebbe che ‘sperimentare’ nuove forme, essendo decaduta la nozione, di derivazione hegeliana, di ‘esperienza’. La cultura post-moderna, inoltre, rifugge dalla ‘arcadia’ e dalla ‘campagna’, amate da Damiani, trovandosi pienamente inserita in un universo ‘urbano’ e/o ‘post-urbano’.
Bibliografia
Giacomozzi F. (2005), Campo di Battaglia. Poeti a Roma negli anni Ottanta (antologia di “Prato Pagano” e “Braci”), Castelvecchi, Roma.
Krumm E. – Charvet E., Tel Quel. Un’avanguardia per il materialismo, Dedalo, Bari, 1974.
Lodoli M., Prefazione, a Damiani C., Poesie (1984-2010), (a cura di Marco Lodoli), Fazio, Roma, 2013.
Sica G., Quando iniziammo a scrivere e il Novecento era già finito, in, Atelier, n.34, giugno 2004.