La questione della nascita della ‘scuola romana’ in rapporto alla situazione del tempo e lo status della poesia italiana sono state analizzate da Gabriella Sica, critica ed esponente della scuola ad un tempo, già direttrice di Prato Pagano, in un Convegno organizzato da Atelier nel 2004.
Secondo Sica, chi allora, all’inizio degli anni ’80, iniziava a ‘cimentarsi con la parola della poesia’ e aveva concluso il proprio apprendistato, si trovava “in una terra desolata, vuota di orientamento” (Sica 2004, p. 64). Osserva sempre il critico: “di una sola cosa avevo certezza: non mi piaceva quello che avevo visto e a lungo osservato nel mio tirocinio giovanile” (Sica 2004, p. 64). Sperimentazione, denigrazione della poesia e insistenza sulla ‘morte della poesia’, gli esiti della temperie culturale del tempo apparivano ormai come appartenenti al passato. Più che essere animati da uno spirito polemico o da una forte contrapposizione verso questi esiti, i giovani poeti della ‘scuola romana’ sentivano di trovarsi in una situazione nuova, in quanto “la predicazione della morte della poesia che ancora si continuava a fare e la tabula rasa dell’antico coincidevano con la fine di un secolo e per me come persona fu l’inizio della mia vita nuova” (Sica 2004, p. 64). Ci si sentiva ‘senza padri’, solo con alcuni ‘maestri’ (Caproni e Bertolucci) di fronte alla necessità di opporsi alla deriva ed al nichilismo imperante per fondare un nuovo umanesimo, un’esigenza che si presentava come imprescindibile. “Fu un vero ripartire da zero, almeno così ci sembrava, come capita a volte ai giovani, fu come dover ripartire dalla fine di un’epoca, dall’esaurirsi di un secolo. Ma c’era la linea antinovecentesca della poesia e una tradizione secolare a puntellarci in un mondo in rovina spirituale” (Sica 2004, p. 64).
L’uso del plurale, sottolinea Sica, deriva dal fatto che erano diversi gli autori che si trovavano in tale situazione e condivisione di idee; ciò rendeva possibile ‘fare un pezzo di strada assieme’, la creazione ad esempio di “una rivista, un’officina o un atelier dove lavorare insieme in uno stesso laboratorio, ricreare nella poesia nuovi mondi reali che ci venivano dal mondo antico […]” (Sica 2004, p. 64).
Unione di intenti, dunque, e comune sentire portarono alla creazione di riviste – il riferimento di Sica è a Prato Pagano, ma Braci era mossa da un analogo sentire – grazie alle quali ‘ricostruire’ il paesaggio ‘devastato’ della poesia italiana. La ‘ripresa’ e la ‘rinascita’ della poesia in nuovi campi comportava l’adozione – o meglio la ‘creazione’ – “di un nuovo stilnovo e di una nuova lingua” (Sica 2004, p. 65). La ‘ripresa’ dei classici, anche di ‘classici’ di soli 30 anni prima, cioè contemporanei, nasceva non dall’aver nulla da dire – osserva sempre Sica – ma piuttosto dal credere che questi avessero qualcosa da dire sul mondo e potessero svolgere una funzione educatrice. Ciò rendeva possibile “uno sguardo nuovo, più semplice e più fresco, a volte, con un candore

estremo, che era il candore di chi ha attraversato il mondo degli inferi e rivede la luce” (Sica 2004, p. 65).
Questo venire alla luce di una nuova poesia da parte di autori allora giovani, continua Sica, non fu mai mosso da forte polemica o contrapposizione all’attualità poetica o al recente passato, ma fu piuttosto lo sforzo di una poesia che ‘non era contro ma per qualcosa’; ciò spiega perché si scrivesse poesia e non critica, e perché nessun poeta scrivesse saggi o recensioni. Da notare l’insistenza di Sica sul fatto che la nuova ‘scuola’ sorse spontaneamente, quasi per autogerminazione, senza alcuna elaborazione teorica o alcuna volontà precostituita. Infatti, “Quasi inavvertitamente si creò una generazione, un tessuto unitario, un luogo da condividere, che si ramificava in altri luoghi, in altre città, in sintonia, e tuttavia sine furore ac studio” (Sica 2004, p. 65).
Il congedo dal secolo era alla base dell’apertura all’antico, considerando i classici come compagni di strada, in un dialogo con i poeti antichi, nello sforzo di ritrovare la parola e dare slancio e concretezza alla poesia, per riuscire a ‘dire il mondo’, riportare la luce della chiarezza, dare un responsum ed avere un nuovo pubblico.
Sica sottolinea come in quegli anni – tra il 1980 ed il 1987 – la completa estraneità dei nuovi poeti al postmoderno, la loro ignoranza su ciò che facevano gli artisti postmoderni.
Damiani, da parte propria, in riferimento a Braci ha posto notevole enfasi, in un colloquio con Carla Gubert, sull’importanza dell’apertura agli antichi (come in Petrarca), ed anche ai posteri, di contro allo scarso interesse verso i contemporanei: “Quanto alla tendenza a ‘marcare le fratture’, noi sentivamo che di fratture ne erano state marcate troppe, noi sentivamo che dovevamo riconciliarci con il passato, e con il futuro, che dovevamo rimarginare, noi non soltanto sentivamo fraterni e vicini, attuali, gli antichi (più degli avanguardisti che sentivamo già polverosi e desueti), ma (emulando Petrarca che teneva con alcuni di loro una fitta corrispondenza) desideravamo anche essere capiti, essere letti da loro. A noi più che dai contemporanei, ci interessava essere letti dagli antichi, occidentali e orientali in ugual misura, e dai futuri, che consideravamo più intelligenti, meno ideologici dei contemporanei” (Gubert).
Si può sottolineare la profonda differenza anche ‘di tono’ ed esistenziale con la poesia precedente, con il ‘Novecento’, o per lo meno con le interpretazioni più ideologiche della poesia. Non a caso, Sanguinetti aveva sostenuto: “A quell’epoca in realtà io provavo un sentimento che definirei di rivolta anarchica che non era un’anarchia politica ma un’anarchia assoluta: niente principi, non ci sono modelli, gerarchie di stili, di oggetti, fine. Questo principio credo sia all’origine di tutta la grande arte moderna. L’esito politico, poi, può essere diverso: a destra Pound, Eliot, Céline, o a sinistra come Brecht, i surrealisti, Picasso. Ma quello che li accomuna è il fatto di essere uomini in rivolta” (Gubert).
Bibliografia
Sica G., Quando scrivevamo e il Novecento era già finito, in, Atelier, n.34, giugno 2004, pp. 64 e segg.
Gubert C. (a cura di), Dialogo con Claudio Damiani, in, Circe, Catalogo Informativo Riviste Culturali di Trento, Università di Trento,
Sanguineti E., La ballata del quotidiano. Interviste di Giuliano Galletta, 2012, p. 101.