QUEL CHE RESTA DELL’UTOPIA GESUITA SUDAMERICANA
Quattro e un quarto di mattina. Umido. Il conducente, deciso: “Foz!”.
Movimenti nel buio. Odor d’umano. Uno russa forte. Sistemo lo zainetto e scendo nel parcheggio vuoto della stazione degli autobus di Foz do Iguaçu.

Sono in viaggio da qualche giorno, per l’ultima tappa del mio pellegrinaggio sui luoghi di Antonio Raposo, lo spregiudicato avventuriero, mercenario ed esploratore, le cui spedizioni (bandeiras) a caccia di schiavi disegnarono i confini del Brasile moderno.
Foz do Iguaçu è un forno anche di mattina presto, in più è bruttina, e si espande a vista d’occhio. Però è vivace, come tutte le città di confine, e qui raddoppia, dato che in pochi chilometri, un paio di ponti la collegano sia col Paraguay che con l’Argentina.
Preso alloggio e informazioni, salto subito su un mototaxi per un giro di ricognizione che mi conduce al fiume Paraná, il confine.
Il Ponte dell’Amicizia sembra blindato, ma il passaggio è libero. Nessuno chiede nulla. “È pericoloso farselo a piedi. Ci sono sempre assalti”, mi dice il mio motoqueiro indicandomi gente che si azzuffa. La coda è continua e frenetica, di brasiliani che vanno in Paraguay a ricomprarsi ciò che hanno esportato, che risulta meno caro anche se al ritorno bisogna dichiararlo.

Ciudad del Este, oltre il ponte, è nata cinquant’anni fa, ma è già la seconda del Paraguay, dopo la capitale Asunción. Città cosmopolita, ha l’università, autoblindo con fucili a pompa e imbottigliamenti, e un piano urbanistico di fantasia. Tra grattacieli e centri commerciali, torrenti di bancarelle fradice di teloni e lamiere sparano ritmi caldi e parlano portuñol (portugués-español, il linguaggio degli ispanici che vogliono vendere in portoghese). C’è anche una moschea, e si dice che, data la quantità di traffici illeciti, vi abbia le mani in pasta anche Al-Qaeda.
Il Paraná (in guarany, lingua degli indios locali, la “grande acqua”) cola, ridotto ma ancora enorme, dalla vicina diga di Itaipu, una delle maggiori del mondo. A monte forma un lago, lungo quasi fino a Guaíra, l’antica Ciudad Real del Guayrá, regione in cui, nella prima metà del Seicento, furono costituite diverse missioni, patrocinate dal governo spagnolo, nell’ambito dell’immensa provincia gesuitica del Paraguay. Si chiamavano reducciones, riduzioni, poiché vi venivano radunati gli indios: a decine di migliaia furono “ridotti” più o meno forzatamente in quelle entità politico-religiose in cui si tentava di forgiare un mondo nuovo, di realizzare un’utopia, una “città del sole”, uno Stato nello Stato dove nativi evangelizzati lavoravano per il bene comune governati da gesuiti intenzionati a farne cittadini speciali.
Per i bandeirantes come Raposo, sempre in cerca di schiavi per le piantagioni di una San Paolo in crescita, le reducciones divennero una tentazione. Vi si potevano trovare migliaia di peças, “pezzi” (gli schiavi) in un posto solo, già pronti a capire e obbedire.
Dopo anni di razzie nei villaggi dei vicini indios tupiniquins e carijós, cominciarono così a pensare di puntare dritto laggiù, forti anche dell’implicita benedizione del governo di San Paolo, che vedeva le missioni come una sorta di testa di ponte dell’occupazione spagnola. Lo sapeva bene il giovane Raposo, portoghese e figlio (in senso fisico e morale) delle autorità. Fu così quindi, che nel 1628 partì per la sua prima grande bandeira alla volta del Guayrá, che fu un grande successo: la distruzione di decina di missioni e l’asportazione di qualche migliaio di “pezzi”, con i gesuiti (tra cui padre Mazzeta, italiano, teorizzatore dell’ordinamento delle reducciones) ad arrancare disperati tra le catene e i ceppi dei loro protetti per salvare il salvabile durante la marcia.
Dopo una doverosa visita alle cascate di Iguaçu, un bus mi scodella a San Ignacio Mini, una delle missioni meglio conservate della provincia argentina di Misiones, stretta tra Paraguay e Brasile. È in questa zona che all’epoca di Raposo si rifugiarono i sopravvissuti (12.000 nativi!) delle sanguinose cacce del Guayrá e, poco dopo, anche di quelli dei centri missionari del Tape, e poi dell’Itatim, regioni limitrofe, anch’esse oggetto delle attenzioni dell’“infame”, nonché pedine del “grande gioco” per la definizione dei confini ispano-portoghesi. Ne sono rimaste una trentina, sparse nei tre stati, alcune anche protette dall’UNESCO.
San Ignacio rende bene l’idea. Quel che ora è un grande spiazzo erboso e assolato era la piazza centrale, con la chiesa, l’abitazione dei missionari, i laboratori, il collegio. Di là, lungo vie rettilinee si susseguivano le abitazioni per le famiglie. La religione scandiva tutte le fasi della giornata e la proprietà privata era ridotta al minimo. Tutti avevano l’essenziale, che era uguale per tutti, in una sorta di “comunismo teocratico”, che a lungo andare risultò inviso anche agli spagnoli.

Il sito è ben curato, con edifici ripuliti o rimessi in piedi, tra cui un brandello della facciata della chiesa e i chiostri. Sono però vestigia del Settecento, epoca del suo apogeo, quando ci abitavano più di quattromila persone, poco prima della messa al bando dei gesuiti (1768).
Anche i resti delle altre sono più o meno coevi. In Paraguay, i fondi dell’UNESCO hanno fatto miracoli e il restauro della Santísima Trinidad de Paraná è sorprendente rispetto alle condizioni di estrema povertà del paese. Un paese meticcio, la cui lingua ufficiale, accanto allo spagnolo, è il locale guarany, e dove la musica popolare si suona con l’arpa, retaggio evidente dell’educazione gesuita.
Rientrato in Brasile, a São Miguel das Missões, conosco Carlos e sua moglie, nativi che vendono povero artigianato tra le belle rovine della missione. Dopo una partita a biliardo mi invita a casa sua, al villaggio, ma solo a patto che paghi io il taxi per arrivarci. I trasporti pubblici per le loro terre sono previsti di rado. Con la moglie e i tre pargoli riempiamo la macchina, tra le imprecazioni del taxista: “Che cosa ci va a fare in quel postaccio?”. Una volta a destinazione, Carlos mi presenta la famiglia, gente vestita di stracci o a torso nudo, accovacciata nella polvere ad intrecciare bracciali o a snocciolar legumi. Il suocero è il capo villaggio, gente importante… Gente che abita in capanne di fango o di legno. Gente che sopravvive con tre pannocchie e due galline. Gente cui solo l’anno scorso è stata sottratta dell’altra terra.

Lì, nella polvere, tra i cani spelacchiati e bimbi sporchi, rifletto sul nostro Brasile, quello nato dalle carneficine di Raposo e da coloro che lo consideravano un eroe, il “bandeirante magno”, come lo definì lo storico brasiliano Afonso de Taunay.
Guardo la povertà di questo misero mondo autoctono, paese di uomini un po’ meno uguali degli altri, dove la vera utopia è una vita decente.
E vedo che Raposo non c’è più, ma la sua anima bandeirante aleggia ancora minacciosa.