Cito a memoria (non ho sottomano l’introduzione di Italo Calvino alla Anabasi di Senofonte): un Classico è come un cappotto, su cui piovono continuamente commenti e interpretazioni e che si scrolla continuamente di dosso.

La malattia nei vangeli

Leggendo i Vangeli, si comprende come questi (e la storia che raccontano) siano la punta di un iceberg; cioè che il raccontato sia solo il profilo di una montagna, costituita da una discussione millenaria fatta dal popolo ebraico sulla morale, sul fato, sugli obblighi sociali, sul peccato, sul rapporto con il potere, sulla società.

Solo un popolo con una tale capacità di introspezione (che subiva da poco la felice influenza della filosofia greca) poteva produrre una opera così profonda e universale.

Ogni episodio dei Vangeli può costituire una fonte inesauribile di interpretazione e di discussione.

Ciò è anche dovuto alla scarsezza dei supporti di scrittura, che obbligavano l’autore (e il copista) ad una estrema sintesi del racconto, che omette una serie di dati, che spetta all’interprete (e allo studioso) di ricostruire.

I Vangeli narrano due episodi di guarigione di un cieco: uno riguarda la guarigione del cieco (o dei ciechi) di Gerico ed è narrata dai Vangeli sinottici (Luca, Matteo e Marco). L’altro episodio, senz’altro quello più denso di significati, è narrato da Giovanni, e riguarda l’episodio della guarigione del “cieco nato”, cioè del cieco dalla nascita.

il peccato e la punizione nei vangeli

Giovanni dedica un intero capitolo (il nono) all’episodio, che qui si trascrive nella parte essenziale (ma ovviamente invito ad una lettura completa)

9 Passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbi, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio […]. Detto questo sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va a lavarti nella piscina di Sìloe (che significa Inviato)». Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva […]. Intanto condussero dai farisei quello che era stato cieco: era infatti sabato il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi […]. Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri dicevano: «Come può un peccatore compiere tali prodigi?». E c’era dissenso tra di loro […]

Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo (Gesù, n.d.r.) è un peccatore» […]. Rispose loro quell’uomo (il cieco, n.d.r.): «Proprio questo è strano, che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Ora, noi sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma se uno è timorato di Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non s’è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non fosse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi?». E lo cacciarono fuori.

Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori, e incontratolo gli disse: «Tu credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Tu l’hai visto: colui che parla con te è proprio lui». Ed egli disse: «Io credo, Signore!». E gli si prostrò innanzi. Gesù allora disse: «Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi». Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo forse ciechi anche noi?». Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane».

malattia come punizione

La malattia come punizione

La storia ci parla di odioso pregiudizio (comune ad altre antiche società) cioè che la malattia sia la punizione di un peccato; peccato che può riguardare il malato, o i suoi ascendenti, una sorta di karma negativo che si trasmette di generazione: infatti i discepoli domandano: il cieco è tale perché ha peccato lui o hanno peccato i suoi genitori?

Nella risposta Gesù compie uno straordinario ribaltamento: non è il cieco che non vede, non è il cieco che ha peccato, sono i sani che non vedono, sono i sani a peccare: la malattia non è frutto di un peccato, siamo noi che siamo resi ciechi dai nostri pregiudizi.

Leggo il commento di Padre Ska sull’episodio:

“Chi ha peccato?” la domanda dei discepoli, molto naturale nel mondo ebraico del tempo – e non solo – ha come scopo di scoprire il colpevole. Secondo questa mentalità che ritroviamo per esempio nel libro di Giobbe (Gb 4,8-9; cf. Pr 22,3) una disgrazia deve avere una causa, e la causa è un peccato.

Nel caso del cieco nato il problema è più difficile, perché egli può difficilmente aver peccato prima della nascita. Perciò, i discepoli chiedono se non sono forse i genitori i responsabili della disgrazia. Gesù però ricorda un principio molto importante nell’etica biblica: ciò che conta non è tanto stabilire le responsabilità o di individuare il colpevole, bensì di cercare di rimediare alla situazione e aiutare la vittima della disgrazia. L’opera di Dio è la sua capacità di guarire il cieco nato…

Sono soprattutto testi provenienti dal profeta Isaia che parlano della guarigione dei non-vedenti o mal-vedenti.

Udranno in quel giorno i sordi le parole del libro; liberati dall’oscurità e dalle tenebre, gli occhi dei ciechi vedranno. Gli umili si rallegreranno di nuovo nel Signore, i più poveri gioiranno nel Santo d’Israele. (Isaia 39,18-19).

Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto, perché scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa. (Isaia 35,5-6).

I due testi sono abbastanza simili nell’annunziare una trasformazione del popolo sotto forma di un risanamento di tutte le malattie più conosciute (sordità, cecità, mutismo, handicap di diversi tipi) accompagnato da altri prodigi come, ad esempio, la trasformazione del deserto ove sgorgheranno sorgenti d’acqua. Sono segni dei tempi nuovi, dell’ora della salvezza promessa da Dio al suo popolo, in particolare il popolo degli “umili” e dei “poveri” (Is 29,19), una promessa reiterata in Is 61,1-2:

Per lo studioso di antropologia (dilettante, quale io sono) questo episodio si può prestare ad un ulteriore considerazione.

Perché il popolo di Israele (e non era l’unico) aveva un così odioso pregiudizio; perché la malattia doveva essere in qualche modo frutto di un peccato?

Sotto tale profilo richiamo la lettura dell’interessantissimo Vocabolario delle istituzioni indoeuropee di Emile Benveniste.

L’autore sottolinea due aspetti (che io ritengo in correlazione tra di loro):

  • nelle società arcaiche la morale sociale finisce dove finisce il tuo gruppo di riferimento. In una società tribale (dove manca uno Stato, un Giudice, la Polizia, le prigioni, leggi scritte) se tu uccidi uno del tuo gruppo, verrai giudicato dal capo tribù o dal consiglio degli anziani. Ma se uccidi uno di un altro gruppo, il problema non riguarda la tua tribù, salvo il fatto che tale circostanza può comportare un conflitto intertribale; diventa di un problema “di politica estera tribale” non più di morale.
  • L’altro elemento evidenziato da Benveniste è il concetto che il peccato viene punito dagli Dei, sulla persona del peccatore o sui suoi discendenti.

La prima problematica diventa evidente in un episodio del film Lawrence d’Arabia: Lawrence convince diverse tribù arabe a unirsi in una spedizione contro i Turchi di guarnigione ad Aqaba, con il miraggio di impadronirsi delle ricchezze contenute nella città (le tribù superano le reciproche diffidenze e si riuniscono per uno scopo comune temporaneo, pronte a sciogliersi di nuovo non appena lo scopo sia raggiunto).

La spedizione rischia di fallire, perché durante una sosta un uomo di una tribù uccide un uomo di un’altra tribù: non sappiamo le motivazioni dell’azione (omicidio volontario, preterintenzionale, legittima difesa); motivazioni che il racconto non fornisce perché elemento non essenziale; l’unico dato certo che sta per sorgere un conflitto tra le due tribù (una che difende l’uccisore, l’altra che vuole vendicare l’ucciso) conflitto risolto da Lawrence (elemento terzo alla contesa) il quale ricorda di aver salvato una volta la vita all’uccisore e di avere quindi potere di vita o di morte su quest’ultimo; Lawrence quindi uccide all’istante l’assassino, e i due gruppi ritengono la soluzione sufficiente a risolvere il conflitto e quindi proseguono la spedizione contro Aqaba.

Il secondo aspetto evidenziato da Benveniste, a mio avviso è un corollario del primo: se le offese fatte a qualcuno di un altro gruppo non sono punite dal tuo gruppo, resta però il problema morale; appare evidente che determinate azioni ripugnano alla collettività indipendentemente dal fatto che siano punite o meno. In tal caso in una visione “teologica” è ovvio e comprensibile che la società costruisca un sistema morale dove il peccato è punito, se non dalla società, quantomeno dagli Dei mediante l’assegnazione di un destino avverso al peccatore.

Però c’era un problema; troppi erano gli esempi nella società di condotte empie, che di fatto non comportavano un destino avverso all’autore, il quale magari moriva di vecchiaia circondato da ricchezze e potere.

In tal caso la visione “teologica” del peccato “doveva” prevedere che il peccato sarebbe stato punito, se non mediante la caduta in disgrazia del peccatore, almeno da un destino avverso dei suoi discendenti o comunque dai suoi successori.

punizione e peccato

Plutarco e la malattia

Questi due aspetti delle società arcaiche sono a mio avviso chiaramente descritti nell’episodio narrato da Plutarco nella vita di Pelopida.

Nella vita di Pelopida, Plutarco si pone il problema “teologico” del motivo della sconfitta Spartana a Leuttra (la piana l’ho visitata viaggiando in motocicletta) ad opera dei Tebani.

Così narra Plutarco: “l’esercito Tebano andò ad accamparsi a Leuttra, di fronte ai Lacedemoni, e Pelopida ebbe in sogno una visione che lo turbò non poco: Nella pianura di Leuttra esistono i monumenti funebri delle figlie di Scedaso, le Leuttridi, come sono chiamate dal luogo ove furono sepolte dopo essere state violentate da alcuni forestieri di Sparta. Di quest’atto crudele e delittuoso il padre non riuscì ad ottenere giustizia a Sparta; dopo aver maledetto con le maggiori esecrazioni gli Spartani tutti, si sgozzò sulle tombe delle vergini. Oracoli e profezie avevano ammonito più volte gli Spartani di andare cauti e di stare attenti allo “sdegno leuttrico” […]. Pelopida si coricò nell’accampamento e gli parve di vedere le figlie di Scedaso che tenevano il compianto funebre presso i loro monumenti, e scagliavano maledizioni contro gli Spartani…”

In tale storia si desumono i due elementi sopra considerati: la circostanza che Scedaso non ottiene soddisfazione a Sparta perché le vittime sono straniere, e quindi il crimine commesso nei loro confronti da cittadini di Sparta non viene punito dal gruppo di appartenenza dei trasgressori.

L’altro elemento è il fatto che il peccato commesso viene punito dagli Dei mediante un destino avverso che colpisce i discendenti del gruppo cui appartenevano i peccatori (gli Spartani vengono poi sconfitti dai Tebani a Leuttra, proprio nel luogo dove alcuni loro antenati avevano commesso un orrendo delitto a danno di due Tebane).

Questa visione Teologica, ampiamente spiegabile, diventa poi soltanto un odioso pregiudizio: evidenziato nella frase degli apostoli: “Rabbi, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco”?

Questo dimostra che le migliori idee possono diventare pregiudizio e avere pessime applicazioni, e Gesù ci insegna che qualsiasi “sistema morale” non deve dimenticare di porre al centro la Pietà. la dignità umana e il buon senso.

 

Pietro Ferrari