Passaggio al centro delle terre

Panama

Il Centro America è un istmo e un crocicchio. Un posto di passaggio per invasori inquieti. Da decine di migliaia di anni, quando fu ponte per genti d’Eurasia tracimate a ondate dallo stretto di Bering, che in poche generazioni poterono così colonizzare tutto il continente, dai ghiacci di Nunavut, fino ai freddi boschi terrafueghini. I pronipoti, in su e in giù, continuarono ad attraversarlo rimescolando culture e colture in un viavai ininterrotto persino con l’arrivo della nuova marea d’Europa, anch’essa, come la prima, lenta e collosa, come il petrolio naufrago di una petroliera.

Nel mio piccolo, stilla tardiva dello stesso naufragio, da Città del Messico colo lungo l’istmo in cerca di rotte storiche di genti e culture, da ripercorrere coi mezzi a disposizione, pur poveri, quaggiù, come povera è l’umanità che trasportano. L’asse è la ‘Panamericana’, che mi porterà in un paio di mesi fino a Panama, previe cospicue deviazioni nei sei staterelli lungo la strada.

E con l’aiuto della compagna ignoranza approccio stupori storico-geografici, come quello che mi regala un antico ufficiale dell’esercito spagnolo, tal Vasco Núñez de Balboa. Intrigato da misteriosi racconti indigeni in odore d’oro, fu lui lo scopritore di quel che battezzò Mare del Sud (l’oceano Pacifico), sulle cui coste approdò da terra nel 1513, partendo da Santa Maria la Antigua del Darién, insediamento caraibico (il primo in terraferma americana) ormai inghiottito dalla selva colombiana.

A mia volta intrigato da lui, mi sarebbe piaciuto ripercorrerne le tracce, dall’Atlantico al Pacifico, ma ora come allora si rischia la vita. Là, nella densa foresta primaria del Darién (nel continente, seconda solo all’Amazzonia), dove ai suoi tempi scorrazzavano bellicosi indigeni, ai miei s’acquattano i narcos colombiani e io, anziché viaggiare armato e scortato, mi proteggo solo col sorriso.

Non a caso il Darién lo chiamano el tapòn, il tappo. E quella che fu per millenni rotta di libero passaggio tra il Nord e il Sud America, si ritrova ora dispersa tra i kalashnikov dei “ribelli”.

Perfezionata dal primo raid di Balboa, rimane comunque florida la traccia interoceanica che, poco dopo la fondazione di Panama (1519), si cominciò a sfruttare quale scorciatoia per i tesori peruviani. Giunti da Lima in nave, venivano trasportati a forza di braccia indigene o di muli fino alla costa atlantica, per essere reimbarcati verso Cuba e Siviglia, in Spagna.

L’alternativa era doppiare capo Horn.

Navigazione rio san Juan

Di quel primo punto di partenza, la Panama più antica, non rimangono che poche, periferiche rovine, prodotto di un’incursione del pirata inglese Henry Morgan, nel 1671. È invece ancora in piedi il casco viejo, o città vecchia (ora quartiere di San Felipe), sua rifondazione. Pur fatiscente e fradicio, è l’antenato senza dubbio affascinante dei candidi grattacieli dallo skyline newyorkeggiante che incorniciano la baia, ritti come i soldati che lo piantonano a ogni angolo, contro le cattive ispirazioni della povertà occhieggiante i tanti zainetti turisti da oltre la porta di casa.

Per attraversare l’istmo c’è tutto: strada, ferrovia e il celeberrimo canale. Mentre una nave da crociera mi passa a portata di mano, dalla terrazza panoramica delle chiuse di Miraflores, presso la città, penso all’impressione che questa meraviglia ingegneristica dovette suscitare alla sua inaugurazione, quasi un secolo fa (1914). Il traffico è quasi una nave via l’altra (più di 40 al giorno!). Un cargo cinese, una petroliera russa, barche a vela… I bacini si riempiono e si svuotano, con milioni di litri d’acqua alla volta che dalla riserva del grande lago Gatún scolano verso il mare sotto gli occhi delle migliaia di visitatori. E in barba agli ecologisti, sono già cominciati i lavori per aprire un’altra via e non rimanere al palo con i nuovi tonnellaggi.

Io, a Colón ci arrivo in treno, godendomi i bei panorami sul canale. “Ma laggiù non t’azzardare a scendere dal taxi!”, mi dicono tutti. Fuori dalla ben protetta zona franca, la maggiore delle Americhe, la città viaggia senza conducente.

A differenza del tracciato terrestre, che terminava prima a Nombre de Dios (sec. XVI), poi sotto i fortini di Portobelo (secc. XVII-XVIII), oggi provincia profonda, è qui il capolinea atlantico di canale e binari. La città risale proprio alla costruzione della prima ferrovia interoceanica (1855, la prima di tutte le Americhe!), all’epoca della ‘Corsa all’oro’ californiana, quando per andare da New York a San Francisco, piuttosto che affrontare pellerossa e fuorilegge del far west, risultava più semplice venire fin qui in nave, attraversare l’istmo e reimbarcarsi a Città di Panama!

Alla ricerca di nuovi, antichi cammini istmici, lungo il mio percorso esploro anche l’altro grande tracciato prediletto in quegl’anni della ‘febbre dell’oro’: il nicaraguense, notevole perché quasi tutto d’acqua, nonché antico candidato, eliminato, per la corsa al canale. Mano nella mano con Mark Twain, che lo percorse proprio all’epoca, m’imbarco a Granada, gioiello coloniale sul lago Nicaragua, o Cocibolca, alla volta dei Caraibi. E sotto i due coni vulcanici dell’isola di Ometepe mi sento al centro del mondo, e se allargo le braccia posso toccare le coste d’Europa e d’Asia, carezzare il Senegal, e persino solleticare la remota Oceania.

Ometepe (“due montagne” in lingua nahuatl) sembra un cammello: due gobbe poggiate sull’immensa distesa lacustre, residuo d’oceano intrappolato da monti sgorgati durante mille rimpasti geologici. Al centro del lago, al centro del Nicaragua, al centro d’America, in uno dei grandi crocevia del mondo.

E in quindici ore scivolo giù, fino a San Carlos, sull’altra sponda, lontano dalle civili contrade coloniali fino all’altro Nicaragua, il paese del fango e della polvere, dove dal ferry boat mi traslato su un battellino di sedili in plastica che mi porterà lungo il fiume San Juan, nel cuore profondo della foresta, e fino al mare.

Dopo qualche ora: El Castillo, poche file di case di legno ai piedi di un’antica fortezza spagnola, contro le frequenti incursioni piratesche inglesi e francesi a saccheggiare Granada. Poi, dopo le rapide, tra scimmie pendule, trampolieri e coccodrilli al sole, soltanto figure sbucate dal nulla, con un sacco o una borsa, in piedi nel fango in nostra attesa; o avamposti militari, perché la riva destra è già Costa Rica, con le sue fattorie disboscate, ben altro dalla sponda “nica”, di boscaglia alta e fitta.

Nica. El castillo e fiume san Juan

E finalmente, nel verde, le rade casette della nuova San Juan de Nicaragua, risorta tre lustri fa a pochi chilometri dall’antica San Juan del Norte, già Greytown, la prospera stazione di transito ottocentesca distrutta nel 1984, durante la guerra dei contras. Laggiù ora è solo foresta, dalla quale è stato ritagliato il rettangolo di una pista d’atterraggio (solo per uso privato). Uniche vestigia del passato, le malinconiche lapidi dei cimiteri d’epoca inglese e i bassi plinti in mattoni, già sostegno della chiesa andata in fumo e della casa padronale dei Pellas, la famiglia più ricca dell’epoca, di origine italiana. Una draga arrugginita, nella baia calma, ricorda i primi tentativi ottocenteschi di scavare quel canale che mai fu.

Passeggiando per le poche vie del nuovo insediamento, sulle passerelle pedonali sopraelevate “alla veneziana” contro le inondazioni: “C’è ancora molto da fare. Ce la metterò tutta!”, mi assicura ottimista Afonso Jerez, il sindaco insediato proprio oggi, figliastro del precedente. Dice che il futuro sarà la rotta ecoturistica in progetto, e una vera linea aerea, ma per ora per arrivare qui c’è solo il fiume, e in estate bisogna scendere a disincagliare il battello dalle secche!

Più avanti è solo oceano senza ormai più navi. La frontiera con il ricco vicino Costa Rica è ancora chiusa e per me, antesignano di quel futuro forse troppo remoto, la via non ha più sbocco.

Non mi resta che tornare indietro.

Paolo Brovelli