Alla ricerca dell’acqua perduta di Città del Messico

Megalopoli americane, scomposte, disordinate, che si spiaccicano sul territorio come una gomma da masticare, dove ti invischi come un topo in trappola. E vuoi andartene perché la violenza, l’inquinamento, la frenesia… ma sei già sprofondato fino alle caviglie, perché sono subdole, perché hanno mille angoli, e anfratti, e pertugi che ti attraggono come buchi neri per andare a rovistare in un ignoto che già sai, ma che non ti stanchi mai di riscoprire.
Così è Città del Messico, o semplicemente Deefe (ossia D.F., Distrito Federal) per quelli di qui: una spianata di scacchiere fatta di vie, viette, calles, callejones, viuzze, piazze cucite insieme a mo’ di logoro costume d’arlecchino da avenidas e viadotti, nastri di smog perenne come grandi rettili grigi che guizzano lontano, verso montagne e vulcani, grigi anche quelli, del grigio che sale dal basso.
E i ragazzini che scrutano, sguardo giaguaro, dai lati delle strade, e calano tra le macchine ai semafori, dalle delegaciones (quartieri) più povere di Azcapotzalco, di Gustavo Madero, o giù dalle pendici di Tlapan. E le loro mamme, accasciate su gonne memori d’indigena fattura, tra merce scadente e immondizia, sui marciapiedi, oppure ad appiattir tortillas fumanti per la fiumana umana (cinque milioni di passeggeri al giorno!) che si vomita dalle scale del metrò nelle ore di punta che non finiscono mai. Gente piccola e scura, con volti scesi dai templi o sputati dalle fauci di serpenti piumati di vecchi codici. Ecco dov’è l’antico sangue d’America. Calato dagli eremi più remoti, stemperato, miscelato – ma non scomparso, no! – nel brodo primordiale delle megalopoli. Questo è anche Città del Messico, un calderone di DNA euro-mesoamericano, nido di uno dei frutti più freschi della progenie d’oltremare.

E sotto ogni cosa il lago. Il sistema di laghi, anzi, che si srotolava per gran parte della Valle del Messico, con il Taxcoco a difesa di Mexico-Tenochtitlan – la “nuova Venezia” di Bernal Díaz del Castillo, conquistador al seguito di Cortés – e che ora non è più, drenato, pompato lontano oltre i monti e i vulcani e trasfigurato in calcestruzzo. Ora dall’alto della Torre Latinoamericana, conficcata nel nucleo storico, fosco, oltre il velo dei fumi c’è, pastoso, un mare d’urbe, una vertigine orizzontale e senza arrivo, tremolante e indefinita.
Ma all’origine di un lago stanno i fiumi, e anche di quelli non sembra esserci traccia. Scavando bene ne scovo, però, uno, il Rio Magdalena, l’antico Atlitic, sui monti attorno, nel parco periferico de Los Dinamos (eredità di vecchie centrali idroelettriche), dove tra gole e cascate percorre i primi chilometri della sua vita grama. Viene intubato appena mette piede nell’abitato, dove a ricordarlo rimangono, lapidi silenti, i ponti che costellano il Paseo del Rio, lungo il quale un tempo scorreva, ora trasformato in un’aiuola.
Oggi tanto bistrattato, in antico questo fiumiciattolo fu artefice della prosperità di tutta l’area. Sulle sue rive sorse Tenanitla, originario villaggio tepaneca di cui non rimane ormai che il nome ufficioso di una piazza del pietroso centro storico di San Angel, sua discendenza, un petalo di quella rosa di borghi coloniali d’origine indigena che pian piano l’inondazione urbana ha sommerso, ma che la caparbietà degli abitanti ha tenuto a galla.
Tenanitla, “accanto alla muraglia di pietre”, in náhuatl, lingua d’origine ancora in uso. Un nome che richiama la vicinanza al pedregal, spettacolare distesa di lava colata da un’eruzione antica come il mondo, covo di serpenti a sonagli e madre di nopales (la pianta cactacea dell’emblema messicano), ora scomparsa sotto l’omonimo quartiere e gli edifici variopinti della Città Universitaria. Per questo le stradine di San Angel sono lastricate di neri blocchi vulcanici, che pure costituiscono lo scheletro di molte delle antiche case coloniali a un piano, imbellettate di colori pastello e pietrosi bassorilievi, dimora di lignaggi a tinte chiare. Tra queste viuzze silenziose e profumate di buganvillee, reticolati elettrici, muri di cinta, finestre sbarrate e guardiani antiproiettile cercano di tener lontana la ormai già vecchia prole otomi, nahuatl, mixteca, zapoteca, tzeltal, tarahumara, traboccata dentro la ghiotta Valle del Messico come un tempo faceva la lava.

In origine parte del villaggio di Coyoacán, rifugio di Cortés durante la conquista e suo feudo personale poi, fu con la fondazione domenicana della cappella di San Jacinto (metà del XVI sec., tra le prime costruzioni coloniali della Valle del Messico), poi fatta convento, che Tenanitla cominciò a crescere, divenendo anche il punto di partenza della Ruta de la plata, alle miniere d’argento di Zacatecas, più tardi incorporata al Camino real de tierra adentro, fino a Santa Fe, in New Mexico.
Nel XVII secolo, l’arrivo dei carmelitani scalzi e la fondazione del convento di San Ángelo Mártir sulle rive del Magdalena, con rigogliosi orti e coltivi, diede l’impulso decisivo allo sviluppo e il nome attuale al borgo. Dopo l’alluvione di cemento degli anni ’40 e ’50, l’edificio è rimasto lì, solo, coi suoi chiostri e le celle-museo. Ora si chiama “Ex convento del Carmen” e occhieggiando dalle sue cupole ad azulejos ostenta placido la sua imponenza austera tra fumi e clacson.
Sulle panchine di piazza San Jacinto, tra le storie dei disoccupati che il giovedì vengono a cercar impiego nella chiesa e le ricche signore che fanno allegre colazioni nelle terrazze di lusso, mi sento come seduto su un’isola, una delle tante della megalopoli, e percepisco porti infiniti, quelli promessi dai suoi venti milioni di abitanti. E sulle rive dei nuovi fiumi del quartiere, l’Avenida Revolución e l’Avenida Insurgentes, aspetto un battello per salpare ancora, rotta a sud, per dare un volto a quei mille mondi stretti tra vulcani e oceani che da lontano chiamiamo solo Centro America. Giù, fino a che la strada non finisce, a Panamà, dissolvendosi nelle fitte selve del Darién. Fino alla fine del continente.