Perché il mainstream neoliberista è sbagliato e dannoso e la complessità può salvarci
Di Mauro Gallegati
Introduzione
“Supponiamo che qualcuno [arrivi nel mio studio] e mi dica che è Napoleone Bonaparte. L’ultima cosa che voglio fare con lui è essere coinvolto in una discussione tecnica sulle tattiche di cavalleria nella battaglia di Austerlitz. Se lo faccio, vengo tacitamente attratto dal gioco che è Napoleone. Ora, Bob Lucas e Tom Sargent non amano niente di meglio che essere coinvolti in discussioni tecniche, perché poi hai tacitamente seguito le loro ipotesi fondamentali; la tua attenzione è sviata dalla debolezza di base dell’intera storia. Dato che trovo ridicolo quel quadro fondamentale, rispondo trattandolo come ridicolo – cioè ridendo di esso – quindi non cadere nella trappola di prenderlo sul serio e passare a questioni di tecnica”, Bob Solow, in Conversations with Economists, Arjo Klamer, 1983, p. 146.
L’economia neoliberista ha, in una delle sue forme più estreme, una raccomandazione di politica economica assai semplice: lasciar fare al mercato e che lo Stato si occupi dei più fragili – come scriveva Marshall, di “vedove ed orfani” – e delle recessioni e delle crisi, ossia di quando il mercato non funziona – in Italia 27 volte dal 1861. Questa visione ha contribuito a produrre una crescita economica esponenziale, ma fragile, che sta distruggendo la Natura, in definitiva noi stessi. È chiaro che l’Economia non può consumare tutto il capitale naturale. Se la Natura “finisse”, l’uomo, la società e l’economia scomparirebbero, mentre il contrario non è vero. Uno dei risultati principali dell’economia mainstream è quello di ottenere come esito dell’equilibrio del sistema la piena occupazione del lavoro ed il pieno utilizzo del “capitale” – senza alcun intervento esterno, come può essere quello dello Stato – sulla base di pochi assiomi e assunti inverosimili. Di conseguenza, le politiche economiche più opportune sono quelle dell’austerità fiscale e della flessibilità. Eppure basterebbe un po’ di riflessione per accorgersi che tale proposizione deriva direttamente da assiomi e dalla costruzione stessa del modello che, come vedremo più avanti, non considera il tempo. In tal caso si toglie alla ricerca e.g. – finanziata all’80% dalla spesa pubblica, dati OECD – la possibilità di dispiegare i suoi effetti sul PIL (Mazzuccato). Essendo improduttiva, il debito di oggi graverà come maggiori tasse sulle future generazioni.
Giorgio Lunghini ha scritto che il neoliberismo è riuscito laddove anche le scienze fisiche hanno fallito: presentare le proprie “leggi” come verità inconfutabili, come se in cui il rigore analitico è tutto e la rilevanza pratica quasi nulla perché nulla è la sua applicabilità. Nonostante questo, gli economisti neoliberisti pretendono di suggerire ai politici ricette al fine di “crescere” di più – non di aumentare il nostro benessere, facendo coincidere questo con la quantità di beni e servizi a disposizione del consumatore senza riguardo alla Natura e alla Società – con dosi di flessibilità e austerità. Piuttosto che cercare solo una crescita più sostenuta, è ormai tempo di chiedersi “per chi” e contro “cosa”. Ormai la quasi totalità degli scienziati ci ammonisce che proseguendo per questo sentiero di crescita l’esito sarà un collasso ambientale. Sembra non esistere altra via che cambiare l’attuale modello di sviluppo. Siamo responsabili di progettare il cambiamento dall’economia rapace, crematistica, all’economia del bene comune.
La politica economica da 40 anni si ispira al neoliberismo: prescrive alle imprese private di creare ricchezza e di lasciare allo Stato l’intervento in economia solo per cercare di risolvere i problemi quando si presentano, attribuendoli ad elementi esterni non controllabili, senza interrogarsi se questi siano creati dal funzionamento del capitalismo e, quindi, anche dalla composizione dei loro comportamenti particolari, una composizione imprevedibile. Così facendo si è allentata la rete di protezione e sicurezza per i lavoratori – soprattutto precari e working poor – in società dove la disuguaglianza a sfavore dei poveri è crescente.
La teoria economica dominante ha le proprie origini nella teoria dell’equilibrio generale di Walras, 1874, poi estesa da Pareto, 1897 e 1907. Questa teoria dimostra che in equilibrio il sistema è efficiente e ottimo: l’allocazione Pareto-efficiente è la migliore situazione possibile in termini di efficienza allocativa e produttiva, ossia è impossibile migliorare l’utilità di un soggetto senza peggiorare quella degli altri.
Uno dei problemi a cui la teoria economica cerca di rispondere è come sia possibile che in un mondo di autonomi consumatori e produttori ci sia coordinamento, come sia possibile che un abitante di una metropoli abbia la disponibilità di trovare bevande e cibo e quant’altro ogni giorno senza che esista un coordinatore centrale. La risposta di Walras è di una semplicità spettacolare: il coordinamento è reso possibile dai prezzi che si stabiliscono nei vari mercati e che si muovono verso l’alto quando la domanda supera l’offerta, e viceversa. Quando la quantità domandata è pari a quella offerta i prezzi non si muovono più: c’è l’equilibrio.
[E un ossimoro: se in concorrenza perfetta gli agenti sono – per definizione – così piccoli da non poter cambiare i prezzi, chi li cambia? Si chiede Arrow, 19xx]. Guardando al proprio ombelico i singoli agenti nell’aggregato si coordinano: come dice Smith – peraltro in pochissimi passaggi nella Ricchezza delle Nazioni – come se ci fosse una mano invisibile che li guida.
Per avere la dimostrazione dell’esistenza di un insieme di prezzi che consenta di avere un equilibrio walrasiano – sia nello scambio sia nella produzione – bisogna attendere quasi mezzo secolo fino al lavoro di Arrow e Debreu. Debreu, 1959, ne dà una (matematicamente bellissima) formalizzazione assiomatica mentre in Arrow e Hahn 1971 si trova l’esposizione più completa. Da allora, il modello Arrow-Debreu-McKenzey è il diventato il riferimento per il mainstream, dove ogni agente massimizza la propria utilità/profitto, se famiglia/impresa, in un mercato di concorrenza perfetta. Il modello si prefigge di determinare quell’insieme dei prezzi tale per cui la domanda uguagli l’offerta senza alcuna figura centrale che co-ordini produzione e scambio. Ora, nella realtà, come sia possibile che in un contesto popolato da tantissimi consumatori e moltissimi produttori, tutti diversi, senza che alcuno sia preveggente o informato di tutto, non si determini caos – file di acquirenti fuori dai negozi e beni invenduti – ma un risultato piuttosto ordinato resta un fatto misterioso per la teoria mainstream che non può spiegarlo col suo riduzionismo, tuttavia propone affermazioni che trascurano ogni olismo e complessità emergente, ch’è poi quel che osserviamo. La risposta da Walras in poi è stata quella dei prezzi di mercato che coordinano domanda ed offerta. Un risultato straordinario grazie ad un’idea – quella di equilibrio generale – forma formalizzata attraverso un modello relativamente semplice che si può complicare quanto si vuole, ma non diventerà complesso – capace cioè di produrre fenomeni emergenti – non in un qualcosa che cambia (in un sistema complesso) nel tempo. Lo stesso Walras cerca di modificare il sistema cercando di inserire risparmio ed investimento cerca di convincere Poincaré della bontà formale del suo ingegnoso approccio: ma, oltre ogni paradosso, il buon senso dei uno dei matematici più influenti di sempre concluderà con un giudizio inappellabile, che non abolisce ogni tentativo ma proibisce ogni economista razionale di perseguire una via più “semplice” rispetto a quella della “complessità”: se l’economista crede nella razionalità cieca delle entità che studia finisce per divenire irragionevole nelle due deduzioni, contraddicendo la sua razionalità come può intuire quella dei consumatori e dei produttori? Nessun fisico dice all’atomo cosa fare, si accontenta di capire perché e come si comporta: già, ma questa è scienza, il resto non è ben chiaro cosa sia.
A parte questo, la struttura del modello però è tale il baratto esclude il tempo e quindi la moneta, il risparmio ed il capitale: nella GET di Arrow-Debreu tutto è merce, perfino il tempo (intrinseco) e la moneta, tanto che risparmio ed accumulazione di capitale non sono contemplati. Tutto viene deciso nell’istante iniziale e non c’è spazio per nessuno dei fattori che determinano la crescita.

La teoria keynesiana si afferma negli anni ‘40 e per almeno tre decenni domina la scena economica che ormai si identifica con la macroeconomia un fatto emergente dall’interazione di molti attori (così come la molecola dell’acqua emerge dalle interazioni degli atomi di idrogeno e ossigeno, e non dalla loro somma) e di breve periodo. Nel modello keynesiano non esiste un lungo periodo perché secondo K non abbiamo le basi per formarci delle aspettative attendibili – da cui l’affermazione “nel lungo periodo siamo tutti morti”. La teoria keynesiana viene comunque modificata per tenere conto dell’inflazione da una mai specificata curva di Phillips ed estesa al lungo periodo per studiare la crescita da Harrod e Domar. Il risultato però non soddisfa gli economisti in quanto viene sì identificato un sentiero di crescita, ma punto stabile o esplosivo che non ha conferma nella realtà.
Nel fronte neoclassico il primo contributo alla teoria della crescita è quello di Solow. Nel suo modello di crescita le relazioni sono aggregate e si dimostra che il sistema può raggiungere un equilibrio di stato stazionario dove non c’è più né accumulazione né crescita. Ciò che la rende possibile è il progresso tecnologico, di origine ignota tanto che viene definito “la misura della nostra ignoranza” come ricorda Abramovitz.
Per poter parlare di crescita in un sistema di equilibro economico generale bisogna attendere la teoria del “ciclo economico reale” che cerca di microfondare il comportamento degli agenti come massimizzatori walrasiani. Integrando il modello di Solow con le microfondazioni che stanno alla base della crescita ottima di Ramsey, 1928, e poi estesa da Cass e K. delinea le condizioni necessarie per ottenere un risparmio ottimale in un modello dove famiglie e imprese massimizzano comportandosi egotisticamente. Per fare ciò Ramsey ipotizza la presenza di un dittatore benevolo (Barone, 1908) che, sostituendosi al mercato, riesca a guidare il sistema lungo un sentiero ottimale. Cinquant’anni dopo, la teoria del ciclo economico reale riprende l’idea originaria di Ramsey (modificata da Cass e Koopmans ) sostituisce il dittatore con le Aspettative Razionali (Muth, 1961) [Anziché un dittatore benevolo che conosce tutto e persegue il benessere economico dei suoi sudditi, Lucas introduce l’ipotesi di aspettative razionali secondo cui gli agenti usano le informazioni in modo efficiente, senza compiere errori sistematici di previsione. Si utilizzano, in altri termini, tutte le informazioni di cui possono disporre e nel modo migliore possibile (il singolo individuo può commettere errori di previsione, ma si suppone che la collettività abbia aspettative corrette poiché conosce il vero modello dell’economia) e le integra con il modello di crescita di Solow (1956), introducendo la possibilità di avere, accanto alla crescita, i cicli economici. Il ciclo economico reale considera il ciclo come un fenomeno di equilibrio quale reazione ottimale degli agenti economici. Una ulteriore evoluzione si è avuta col DSGE chi ha introdotto elementi di imperfezione nel sistema. I modelli DSGE keynesiani sono derivati da micro-fondazioni, ipotizzando un comportamento ottimizzato di consumatori e imprese con aspettative razionali. Le versioni precedenti la crisi finanziaria escludevano il settore bancario e finanziario, considerando che la finanza e i prezzi delle attività erano semplicemente un sottoprodotto dell’economia reale. Rispetto ai RBC viene ipotizzata un’economia competitiva, ma con una serie di distorsioni, tra cui rigidità nominali – aggiustamento lento dei prezzi – e concorrenza monopolistica. I DSGE ampliano la gamma di shock stocastici che potrebbero disturbare (JES: Smets e Wouters (2003) presentano un totale di dieci “shock”: due shock di “offerta”, uno di produttività e uno dell’offerta di lavoro … tre shock di “domanda” (uno shock di preferenza, uno shock al costo di aggiustamento degli investimenti e uno shock dei consumi pubblici), tre shock “push-cost” (… per il mark-up delle merci, per il mercato del lavoro e … per il premio di rischio richiesto sul capitale) e due shock di “politica monetaria” e multipli attriti, tra cui la “formazione di comportamenti imitativi nei consumi”, un “costo di adeguamento dello stock di capitale” e “parziale indicizzazione dei prezzi e dei salari che non possono essere ottimizzati di nuovo.”).
Secondo la felice definizione di Hall esistono due tipologie di economisti: quelli di acqua dolce (Chicago e Minnesota) e quelli di acqua salata (Boston, NY, California). Diversi, ma sempre pesci. In realtà, gli economisti che analizzano il problema delle imperfezioni informative sono un animale differente in quanto la presenza di informazioni incomplete e disomogenee, causano eterogeneità e interazione, e come vedremo nel capitolo 2, questa implica emergenza. Questi aspetti sono poco curati dal mainstream, ma eterogeneità ed interazione sono inseparabili, introducono elementi di imperfezioni nel modello di crescita ottimale, il che non è un’operazione indolore. Si pensi al fatto che rigidità nei salari o nei prezzi comporta che gli scambi possono avvenire al di fuori dell’equilibrio – non ergodicità. Invece ipotizzando la presenza di mercati imperfettamente competitivi la sola differenza è relativa alla minore efficienza (prezzi più alti e produzione più bassa). Ad oggi chi usa i modelli RBC è guardato come se fosse il soldato xxx: la loro salute è dubbia – per cui si parla di “resurrezione” – mentre quella dei DSGE è assai compromessa.
L’economia ha preso come modello la fisica classica dove le regole e le interazioni non cambiano mai. Sappiamo invece che una delle caratteristiche dell’economia è proprio quella di cambiare nel tempo perché gli agenti si comportano in modo strategico – si parla, ad esempio, dell’”economia feudale” e di quella del “capitale finanziario”, anche se i singoli agiscono – oggi come nelle società nomadi, in quelle agricole o nel Medio Evo – sempre allo stesso modo: ottenere il massimo risultato possibile col minor dispendio di energia.
Walras sostiene che tra l’Economia e le “scienze fisico-matematiche” esista una stretta analogia. Il collegamento tra le due discipline è indentificato nel principio di minimizzazione (dell’energia in fisica e dello “sforzo” in economia) per ottenere il massimo risultato, che permeava tutta la Fisica dell’epoca. Pareto si propone di “disinquinare” le scienze sociali da politica e filosofia, prendendo come modello la Meccanica Razionale: “L’economia non abbia timore di diventare un sistema assiomatico-deduttivo, ipotizzando agenti e processi economici idealizzati, così come la fisica utilizza con grande profitto entità come i corpi rigidi, i fili inestensibili e privi di massa, i gas perfetti, le superfici prive di attrito”. In realtà i dubbi di P sulla metodologia si fanno sempre più insistenti – in una lettera a P lamenta che W “non vede ragioni al di fuori del metodo matematico” – poiché l’aggregato è più della somma degli addendi ed il comportamento non razionale è di pari importanza rispetto a quello razionale, fino a determinarne il passaggio dall’economia alla sociologia.
Si chiede giustamente GIB: “E’ possibile trasformare in quantitativa una scienza umana, ovvero una disciplina i cui procedimenti e le cui conclusioni coinvolgono pesantemente pregiudizi storici, culturali e politici?”. L’impiego della Matematica fornisce all’Economia una particolare autorevolezza, che rischia di trasformarsi in presunta oggettività e che comunque rende difficile l’individuazione dei suoi condizionamenti ideologici. Per Keynes la risposta è chiara: “Non basta semplicemente adattare i metodi e i ragionamenti della fisica alla modellizzazione dell’economia perché l’economia è una scienza morale. Essa ha a che vedere con motivazioni, aspettative, incertezze psicologiche. È come se la caduta della mela al suolo dipendesse dalle aspirazioni della mela, se per lei sia conveniente o meno cadere a terra, se il suolo vuole che essa cada, e se vi sono stati errori di calcolo da parte della mela sulla sua reale distanza dal centro del pianeta”.
In definitiva, si interagisce con gli altri solo se esiste eterogeneità nei gusti e nella dotazioni mentre c’è interazione strategica – la teoria dei giochi di John (János) von Neumann e Oskar Morgenstern e poi Nash – con informazione asimmetrica. In tal caso l’equilibrio che si ottiene non è l’equilibrio della mano invisibile di W, con la sua efficienza e ottimalità, e dipende dalle strategie adottate.
In presenza di asimmetrie informative gli argenti interagiscono formando nuovi mercati ed istituzioni: i sistemi sociali cambiano ed evolvono nel tempo perché ci sono interazioni, innovazioni e auto-organizzazione. A questo punto è chiaro quanto sosteneva Marshall: “la Mecca dell’economia è la biologia”. Con in più il fatto che, poiché l’informazione non può che essere – nel mondo reale – limitata ed incompleta, si produce interazione strategica, sicché la stessa biologia viene superata da una disciplina con agenti pensanti.
L’economia mainstream è purtroppo analiticamente incoerente – anche senza scomodare Gœdel ed i suoi teoremi – e disegnata seguendo il principio secondo cui, essendo una scienza della Natura come la fisica, ha leggi immutabili e gli agenti sono atomi che non pensano né apprendono. Le ipotesi di informazione perfetta e razionalità completa potevano essere – come ammoniva Poincaré a W – di una qualche utilità all’inizio della speculazione teorica, ma di nessuna rilevanza normativa. A ben vedere, le proprietà di perfezione, che rendono di fatto ogni agente un “demone di L”, non possono che farci approdare al “migliore dei mondi possibili”. Così facendo si elimina per costruzione ogni patologia (disoccupazione, crisi e fluttuazioni, inflazione) e l’economia oggi dominante è utile come un medico specializzato in pazienti perfettamente sani. Al minimo problema di salute, rivolgetevi altrove, come suggerisce Blanchard (vedi capitolo 1). Recensendo il libro – pieno di formule – Mathematical Physics: an Essay on the Application of Mathematics to the Moral Sciences di Edgeworth, Marshall scrive che sarà interessante vedere in futuro se l’autore riuscirà a controllare le equazioni o scapperà via con queste. Oggi conosciamo la risposta, che vale per tutta l’economia standard. Di seguito non sostengo affatto che la teoria economica dominante sia stupida. Quando una costruzione teorica sembra colossalmente e inspiegabilmente paradossale, probabilmente ciò è dovuto ad una serie di assiomi fondamentali di cui, con il passare del tempo e dei modelli, ora non si ha più memoria. Si costruisce su fondamenta spesso precarie, allungando a dismisura “catene logiche” che via via sono meno robuste.

Non si deve poi trascurare il fatto che la fisica classica crede fortemente neo principio olistico secondo cui il comportamento aggregato può essere ricondotto a quello delle componenti elementari. Cosicché se queste si comportano razionalmente, anche l’aggregato lo farà. Come vedremo nel capitolo 2, questa ipotesi richiede che non esista interazione – se non di prezzo tra gli agenti – e che sia possibile avere un agente rappresentativo – medio – che però è una costruzione analiticamente incoerente.
Esiste una differenza fondamentale tra economia e fisica. Il moto dei pianeti è prevedibile con milioni di anni di anticipo, così come è “semplice” guidare una sonda spaziale a miliardi di km di distanza, grazie ad equazioni sostanzialmente invariate dai tempi di Newton. Le regole rimangono le stesse perché dettate dalla Natura e non cambiano con la “volontà” degli agenti. Le “azioni” degli astronomi non influenzano i movimenti dei pianeti; le loro convinzioni sulla dinamica dei pianeti non fanno alcuna differenza. Potrebbero pubblicare un articolo sull’orbita di Venere e Venere continuerà il proprio moto senza problemi, mentre un economista che pubblica un articolo sul fatto che un mercato del lavoro più flessibilità favorisce la crescita dell’economia può influenzare l’andamento dell’economia e la vita delle persone, se qualche politico dovesse credergli. La leggi fisiche sono stazionarie; le “leggi” dell’economia sono riflessive e possono essere influenzate dalle nostre convinzioni su tali leggi. “Alla natura non importa … se penetriamo nei suoi segreti e stabiliamo teorie di successo sul suo funzionamento e applichiamo queste teorie con successo nelle previsioni. Nelle scienze sociali, la questione è più complicata e nel fatto seguente si trova una delle differenze fondamentali tra questi due tipi di teorie: il tipo di teoria economica che è noto al partecipante nell’economia ha un effetto sull’economia … Lì è quindi un “backcoupling” o “feedback” tra la teoria e l’oggetto della teoria, un’interrelazione che sicuramente manca nelle scienze naturali … In quest’area ci sono grandi problemi metodologici che meritano un’attenta analisi.” (Oskar Morgenstern, 1972, p. 707)
L’economia, come altre discipline sociali è spesso divisa trova due correnti: una più conservatrice e una volta più progressista. È difficile trovare in fisica un approccio di sinistra contrapposto ad uno di destra. La legge di gravità per esempio non è né di destra né di sinistra. La dicotomia che si trova invece nelle scienze sociali è dovuta al fatto che l’uomo è un animale sociale che segue i propri obbiettivi interagendo spesso in modo casuale e per via di informazioni private – sugli altri agenti e sul futuro – parziali e ignote. Esistono così un comportamento di imitazione o di gregge che influenza la decisione del singolo appunto. Questo perché l’economia è riflessiva cioè il comportamento del singolo influisce su quello collettivo, ma anche il contrario. Quando i prezzi delle azioni aumentano è possibile che non riflettano quello che gli economisti chiamano i fondamentali cioè i profitti che le aziende realizzano nei mercati. Si verifica cioè che quando l’indice di borsa aumenta, ai singoli convenga seguire l’andamento di borsa e comprare i titoli, spingendo ulteriormente al rialzo il prezzo di borsa. Questo anche se le convinzioni dei singoli sono tali da fare identificare un processo di bolla speculativa. Prima o poi la bolla esploderà, ma nel frattempo ci sono occasioni di profitto che possono essere colte, anche se la razionalità ci dice che siamo in un momento speculativo.
Inoltre in economia il contesto o la struttura è continuamente modificata dalle innovazioni. E un po’ come giocare a scacchi e la scacchiera 8×8 viene continuamente modificata dalle innovazioni e diventa 9×9 o 12×11, e i cavalli 6 e 8 le torri. Magari le singole regole non cambiano e neanche gli obiettivi, ma le strategie sì. In realtà c’è di più: compaiono alfieri a cavallo e pedoni pie’ veloci che scavano trincee e costruiscono bastioni. Siamo in un mondo incerto che non risponde alla statistica, come lanciare un dado che ha sei facce e durante il lancio cambia il numero di facce rendendo così impossibile ogni previsione. Il gioco si fa così non solo più complicato, ma anche complesso nel senso che emergono nuove circostanze ed attori. Si è presa la fisica classica a modello, applicandola però ad un oggetto non pertinente in quanto è caratterizzato da emergenza e che evolve nel tempo.
I sentieri di crescita ottimali sono certo dinamici, ma la loro traiettoria è già determinata nell’istante iniziale. Sono come una freccia scagliata da un arco: date forze e c.i. il tragitto è già segnato e solo uno shock potrebbe modificarne il percorso. Per gli “altri” invece c’è bisogno di una verifica step by step, perché le vendite confermeranno o meno le decisioni di produzione determinando l’andamento dei profitti e l’esito del “salto mortale” del capitalismo. Solo nel caso in cui il capitale finanziario resti positivo, si potrà continuare la produzione.
Dobbiamo poi considerare che mentre l’economia AD è un’economia di puro scambio che si occupa principalmente di distribuire – o allocare – le quantità date all’inizio del periodo in modo da rendere massima l’utilità del consumatore e i profitti del produttore, e la DSGE rende “dinamico” tale processo, quella classica cerca di analizzare il processo di produzione. La prima è un processo lineare che, date le quantità di uova e le omelette preferite dai consumatori, si producono frittate. Non ci si occupa di come e quando ottenere le uova e come aumentare il numero delle ricette per cucinarle in modo nuovo. Viceversa per gli altri esiste il tempo. Tutto questo accade all’istante iniziale. E come se esistesse un Big Bang dell’economia. È chiaro inoltre che qui il debito ed il credito, e più in generale la moneta, non hanno alcun ruolo – nessuno, ricorda Keynes, vorrà detenere moneta in tale contesto, al di fuori di una gabbia di matti. Il loro compito è quello di collegare i vari periodi di tempo. Ne segue che, non essendovi tempo non c’è bisogno di moneta. La neutralità della moneta, cioè il fatto che la moneta non può produrre effetti reali, è già implicita nelle ipotesi. La differenza tra le due visioni è ben rappresentata dalla loro interpretazione su cosa determinano i prezzi: un indice della loro scarsità per AD – per cui i diamanti costano molto e l’acqua poco – e di costo di produzione più un mark-up per i classici.
Dopo la great moderation, e forse anche a causa di essa, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta il dibattito tra economisti si è praticamente interrotto tanto che Lucas poteva suggellare nel 2003: “il problema centrale della prevenzione della depressione è stato risolto, a tutti gli effetti pratici, e in effetti è stato risolto per molti decenni”. Altri, in quello stesso periodo, ritenevano che il problema delle depressioni fosse tutt’altro che scongiurato (Sylos Labini 2003). In ogni caso, sarebbero passati solo quattro anni dalla dichiarazione di Lucas e la realtà avrebbe smentito la teoria mainstream. Alla crisi il mainstream ha reagito in 2 modi. Da una parte un déjà-vu: arricchire il modello (introducendo prima le banche e poi il sistema finanziario, insieme a rigidità varie, fino all’eterogeneità debole – senza interazioni cioè) senza mettere in discussione il nucleo assiomatico della teoria, in un modo che ricorda da vicino la “epiciclizzazione” del sistema tolemaico. Dall’altra, pur riconoscendone i limiti, si apre – moderatamente – a nuovi approcci purché si perseveri nell’adozione del nucleo neoclassico, il “paradigma della scarsità”, per il quale i prezzi dei beni dipendono dalla scarsità degli stessi.
L’interazione tra le componenti di un sistema implica non-linearità mentre le proprietà di un sistema lineare sono additive: il risultato aggregato è la somma degli effetti considerati separatamente e non emergono caratteristiche che non siano già presenti nei singoli elementi. Se invece ci sono elementi che dipendono gli uni dagli altri, allora il tutto è diverso dalla somma delle parti e compaiono caratteristiche che non appartengono a nessuno degli elementi costituenti.
Il comportamento emergente è proprio sia di sistemi elementari, come ad esempio la fisica delle particelle e la fisica atomica, che di sistemi di organismi viventi o di individui sociali o dei sistemi economici. L’emergenza smentisce la visione riduzionista secondo cui ogni conoscenza scientifica può essere fatta risalire alle leggi proprie delle particelle elementari. La complessità ha dimostrato che, al salire della scala dimensionale (particelle, atomi, molecole, organismi …), emergono leggi nuove che non esistono nei livelli inferiori. La complessità ora abbraccia ogni disciplina, ad eccezione dell’economia e della religione che almeno non ha pretese di essere scienza.
Questo libro discute della disciplina dell’economia come è, di come dovrebbe e potrebbe essere l’economica dei nostri figli, orientata al benessere e non all’impossibile crescita sostenibile. Il lettore non troverà soluzioni, ma spunti di riflessione: a domandarsi se l’austerity serve davvero o è solo una prescrizione generata da un paradigma morente, se vogliamo vivere in un sistema che mira alla crescita di beni e servizi anziché al benessere, se fare sacrifici per attuare riforme a senso unico per avvicinare la realtà alla teoria di un modello rigettato da quegli stessi che l’hanno scritto, ha senso. Seguendo la mappa disegnata dell’economia mainstream siamo finiti in una trappola evolutiva. Il fenomeno del riscaldamento globale è lì a dimostrarlo. Nelle pagine che seguono mi sono limitato a riprendere le avanzate, quasi sempre formulate in teoremi, dagli stessi economisti neoclassici, perché il modello standard è sbagliato logicamente – dalla misurazione del capitale al ruolo dell’informazione e del tempo, dal “teorema” del “tutto è possibile” alla presenza del caos che rende impossibile la formazione di aspettative, dalle microfondazioni che l’emergenza vanifica al “come se” che ipotizza che i singoli agenti cambino i prezzi anche se ipotizza che siano troppo piccoli per farlo, al tempo che non esiste al di fuori dell’istante iniziale, alla funzione di produzione mainstream che vale per la macroeconomia ma non per la microeconomia. Tutte contraddizioni logiche riconosciute e spesso formalizzate dagli stessi economisti mainstream di un modello che di fatto ci rovina la vita obbligandoci alla flessibilità, all’assenza dello Stato e all’austerità – grazie anche alla pedissequa applicazione del “vizio ricardiano”. L’economia dominante si è ispirata alla fisica classica dimenticando però che le leggi fisiche valgono anche per lei e soprattutto che il sistema economico cambia nel tempo e con essa le regole. Il capitolo 2 si occupa proprio di questo: come può essere un paradigma alternativo. Ormai, come JPF, sono disilluso che i miei colleghi economisti mi ascoltino, ma son certo che qualcuno dei lettori ci rifletterà. E comunque mi sono stancato di assistere inerme alla precarietà di lavoro e vita della generazione sotto i 40 e alle sofferenze di interi popoli in nome dell’austerità. Se tali ricette sono prescritte da una medicina farlocca – e a sostenerlo sono quelli stessi che l’hanno formalizzata – di fronte al dilemma se buttare quella teoria o la realtà che non si comporta secondo i suoi dettami, io non ho dubbi. Non so voi.
Mauro Gallegati