Ormai non si studia più a scuola la fondazione di Roma, il “solco fatale” tracciato da Romolo e l’uccisione di Remo che aveva osato varcarlo.

Ma quale era il senso di tracciare un solco, e perché una punizione così grave per il trasgressore.

Romolo, infatti, uccide Remo che, non accettando la scelta del luogo di fondazione, irride il fratello, decidendo di scavalcare il solco appena tracciato (o le primitive mura in corso di costruzione)?

Quale può essere il significato attuale di un tale avvenimento?

I fatti, collocati tradizionalmente al 21 aprile 753 a.c. sono narrati da autori latini e greci, il più importante dei quali, Tito Livio, si colloca ai tempi di Augusto, epoca in cui si tentava di ricostruire storicamente un fosco passato, pieno di leggende e magie.

Tendenzialmente gli autori moderni hanno screditato il lavoro degli storici antichi, ritenendoli solo raccoglitori di leggende.

Oggi però i datti archeologici sempre più confermano le narrazioni di autori antichi quali Tito Livio o Erodoto, autori che evidentemente, avevano fatto un serissimo lavoro di raccolta di informazioni sul passato.

Consiglio sul punto di vedere la conferenza dell’archeologo Carrandini sulla fondazione di Roma, facilmente reperibile su You Tube; secondo Carrandini il racconto Liviano è pienamente confermato (anche riguardo alle date) dai resoconti archeologici; se una cosa gli autori posteriori hanno taciuto, sono i risvolti “magici” e superstiziosi dei fatti narrati come, ad esempio, i sacrifici umani che i Romani compivano in concomitanza di eventi particolarmente importanti e che gli autori dell’epoca di Augusto, che vivevano in un ambiente culturale ben più razionale, tacevano per pudore.

Roma, come afferma Carrandini, non fu fondata dal nulla; una caratteristica fondamentale della riva del Tevere dove venne fondata Roma è di essere una terra di confine, cioè un territorio ai margini di centri culturali molto diversi tra loro, ma nel contempo un territorio di passaggio e di scambio (est ovest, che era la direttiva di transito del sale necessario per la conservazione dei cibi, nord sud per le altre merci, essendo in quel punto un guado importante del Tevere).

A sud, nei monti Albani, vi era la Comunità Latina, a est, i Sabini, di ceppo Umbro, a nord si stavano formando gli Etruschi, tutti popoli che si erano formati o erano immigrati occupando gli spazi dove vivevano gli “Aborigeni” forse di stirpe affine ai popoli Liguri.

Quindi un territorio ai margini dei centri di potere istituzionale, luogo dove pertanto fiorivano piccoli centri di potere tribale, ognuno facente riferimento alla propria etnia di riferimento.

Secondo gli autori antichi, la località di Roma, prima della sua fondazione, si chiamava “septimontium” e si può facilmente immaginare che ognuno dei “monti” facesse riferimento ad una sua comunità etnica.

Quindi, cosa fa Romolo? Fa quello che aveva fatto secoli prima Teseo ad Atene, riunisce i popoli separati e diffidenti, e li “unifica”.

Ma c’è un problema; come dice Benveniste, nelle società arcaiche la “morale” finisce dove finisce il tuo gruppo; se tu uccidi uno del tuo gruppo, vieni processato dai capi famiglia, ma se uccidi uno di un altro gruppo, la questione non interessa i tuoi capi famiglia, se non in quanto tale fatto può portare ad una “guerra” con il gruppo cui apparteneva l’ucciso; è la logica della faida e di tutte le comunità primitive, che devono convivere senza uno “Stato” che regoli i loro rapporti (un po’ come le associazioni criminali).

Questo problema viene ben evidenziato nel film Lawrence d’Arabia; in una scena Lawrence convince un capo tribù di riunire altre tribù per attaccare Aqaba, ma durante la spedizione un uomo di una tribù uccide un altro uomo di un’altra tribù. Quindi sta per nascere un conflitto tra le due tribù, e la spedizione, che aveva convinto i vari capi ad unire le forze, rischia di fallire perché sta per scatenarsi un conflitto interno. Lawrence, però convince tutti, dicendo che, avendo salvato una volta la vita dell’uccisore, aveva potere di vita o di morte su quest’ultimo, e quindi uccide all’istante l’assassino; questa soluzione viene accettata da tutti, e quindi la spedizione riprende.

Quindi, per riunire diverse tribù con culture, tradizioni religiose, e lingue diverse, che diffidano l’una dalle altre, cosa deve fare Romolo?

Ovviamente deve fare una “magia” (magia, magno, mago, hanno la stessa origine, che significa “forza”) cioè compiere un rito di fondazione (probabilmente importato dagli etruschi), che crei una città, laddove prima vi era solo una serie di pagi ognuno gestito da un capotribù.

Quindi traccia un solco (scavato con un aratro con una punta di bronzo, tirato da un toro e una giovenca bianchi, indossando la toga cinta in una maniera particolare, sollevando l’aratro laddove sarebbero state le porte, con un particolare modo di spostare le zolle, ecc) a delimitazione del “pomerio” cioè del luogo dove sarebbero sorte le mura della città (inizialmente solo intorno al palatino) e oltre il quale sarebbero stati scacciati gli spiriti maligni liberando la costruenda città dagli influssi negativi delle divinità negative.

Quindi, sostanzialmente, un “cerchio magico” la cui violazione avrebbe comportato “un interdetto” cioè una maledizione per il trasgressore, che sarebbe stato colpito da sventura.

Ovviamente tutto questo doveva essere circondato da un alone di sacralità, per convincere  poveri e forse scettici pastori (e gli ancor più scettici capibastone, che dovevano rinunziare ad una parte del loro potere, per diventare non più piccoli re, ma solo senatori della futura Roma) a far parte della nuova comunità, ed abbandonare le precedenti reciproche diffidenze.

Ma Remo, che non accettava la nuova sede di Roma (pare che Remo avesse scelto l’Eur) decise di scavalcare il solco, irridendo Romolo, e facendo capire che la violazione dell’interdetto non causava alcuna disgrazia, e quindi il rito era inefficace.

Sul momento, pertanto, Romolo non poteva che uccidere Remo, cioè compiere un atto politico, che dimostrasse l’efficacia della “magia”, e quindi la “forza” del rito di fondazione, volto a convincere i popoli del “septimontium” ad abbandonare le diffidenze reciproche per costituire una nuova comunità.

L’opera di Romolo fu poi compiuta dal successore, il Sabino Numa Pompilio, che unificò le leggi e i riti religiosi, prima appannaggio delle singole “gens” (tribù) fondative della città.

Quindi, Roma, al momento della fondazione, è un “non luogo” che diventa una città; comunità sparse senza nome che si uniscono, accettando che lo straniero del colle di fronte diventi concittadino.

Una decina d’anni fa, tornando dalla Sicilia, sbarcai a Napoli e con la macchina, invece di prendere l’autostrada, passai (dopo essermi fermato a prendere un ottimo pane e una migliore mozzarella) dal Litorale Domizio, costeggiando il mare a nord di Napoli.

Anche il Litorale Domizio è un non luogo (confessate, non ne avete mai sentito parlare); è una zona edificata negli anni ’70 pensando ad uno sfruttamento turistico balneare; le costruzioni sono quelle tipiche delle villeggiature costiere, palazzi alti e colorati, architetture un po’ fantasiose; solo che qualcosa deve non aver funzionato, e all’epoca, quando vi passai, era solo un luogo di dimora di extracomunitari di varie etnie, probabilmente dediti a piccola criminalità o a fare la forza lavoro nelle vicine campagne.

Un non luogo, un “septimontium” che necessiterebbe oggi un nome ed un rito di fondazione, per far sì che quei popoli, quegli uomini (quegli ‘occupanti’) trovino un senso per diventare comunità.

Succede agli uomini di non darsi responsabilità sin tanto che qualcuno non gliene attribuisce. Se quegli uomini, quelle comunità sparse di stranieri che occupano il litorale domizio fossero chiamati a votare per costituire un consiglio Comunale, una Giunta, un Sindaco che li rappresentasse, se fossero consultati per sentire quali sono le loro esigenze (scuole, palestre, servizi) diventerebbero immediatamente cittadini e legati alla loro città.

Si dice che per fondare Roma (ab urbe condita) parte del rito consistesse nel fare una buca, dentro la quale ognuna delle tribù gettò un po’ di terra del “monte” di provenienza. Poi il sacerdote pronunziava il nome ufficiale della città (Roma) e il nome “segreto” (Roma aveva un secondo nome “segreto” per impedire ai nemici di poterlo invocare nell’ambito di magie volte alla distruzione della città).

Per tale nuova città propongo il nome di Concordia.

Pietro Ferrari