A spasso per Cuba, aspettando Gustavo

[L’articolo racconta di un viaggio attraverso Cuba occidentale a contatto con la gente, discorrendo dell’arrivo preannunciato dell’uragano Gustav. Perplessità, speranze, orgoglio e delusione, che dalle considerazioni sull’episodio debordano in quelle sul sistema]
“Sta arrivando Gustavo” mi sorride Juan sgambettando lungo il molo carico di maschere da sub per il centro d’immersioni. Il mare, a Maria la Gorda, estremo occidente dell’isola, è un olio, verde, trasparente, una specie di ventre materno, che quando c’entri non nasceresti mai.
Gustavo, anzi Gustav – sono sempre gli americani a dare il nome a tutto – mi perseguita ormai da qualche giorno. Domenica il Sistema informativo de la televisión cubana, ha comunicato che “si sta formando qualcosa di importante”, tra le acque calde dell’oceano Atlantico.
“Sembra che abbia voglia di farsi un giro per Haiti e la Giamaica, prima di venire a far danni da noi”, mi aveva pronosticato il contadino con cappello di paglia e stivali di gomma che accompagnavo dal fratello, a Pinar del Río. “Se passa di qui, fa fuori le nostre piantagioni… Sono le migliori del mondo, lo sa no?”.

Raccogliere autostoppisti è un’attività cui non ci si può esimere, a Cuba. I trasporti sono quasi inesistenti, da una ventina d’anni (dopo il forfait dei sovietici), e uno spostamento richiede ore al lato di una strada. Io, capitalista con macchina a nolo, cerco un significato al solidale, e nella ruralità di quest’ultimo mondo senza pubblicità, insieme a ‘covoni’ di gente raccolgo anche messi di calorosi grazie e interessanti novelle.
Gli uragani sono una questione seria, da queste parti. Ogni estate, per tre o quattro mesi, sono uno via l’altro, più o meno intensi. Per me erano solo storie, o quasi. Vivendo un’esperienza dal divano del salotto, film e realtà si sovrappongono e anche lo Tsunami indonesiano sembra prodotto a Hollywood.
La TV: “Da tormenta tropicale è ora ciclone di categoria 2 della scala Saffir-Simpson [che arriva fino a 5] e imperversa su Haiti da due giorni. Morti e feriti”. Haiti-Cuba: una settantina di chilometri.
Il mio notiziario preferito, però, sono i “clienti” che ospito nel sedile accanto. Darlenis, madre criolla con bambino in braccio, torna dall’ospedale. Glielo curano bene, il suo niñito. E tutto gratis. “Qui, per l’educazione e il sistema sanitario direi non ci possiamo lamentare”, dichiara con una punta d’orgoglio. “E se viene l’uragano, ci proteggeranno”.
“Forse siamo fuori pericolo. Ha perso forza, e forse se ne andrà verso nord, in Florida, e ci risparmierà, questa volta. Con tutti i problemi che c’abbiamo…” impreca Yackelin. Finito il turno di lavoro, al punto di ristoro dell’autostrada per Santa Clara, mi chiede un passaggio. Abita a venti chilometri. “Ogni giorno mi ci vuole più di un’ora per trovare qualche buon cuore. Hanno paura dei furti”. Lei non ce la fa più. L’anno prossimo, dice, raggiungerà i suoi fratelli a Miami. “Via di qui! Devo ‘solo’ trovare i diecimila dollari per la barca clandestina”.

Feliciano mi invita a prendere un caffè. Dato che zoppica, l’ho accompagnato davanti casa, e non sa come sdebitarsi. Accetto. Un pergolato di buganvillee, con un tavolo di sasso per giocare a domino con gli amici. “Avanti, avanti. È una casa semplice, ma solida. Quando Gustav arriverà, ci verrà tutto il vicinato. Non sarebbe certo la prima volta”. E intanto avvita la moka italiana, in uso in ogni buona famiglia cubana. In questi casi di estrema emergenza, le autorità passano casa per casa e, se non è abbastanza solida, costringono all’evacuazione. Di solito dai vicini, senza andar troppo lontano.
A Cuba, anche offrire un caffè è una spesa grande se non hai introiti in peso convertible (la moneta parallela che vale ora più del dollaro): rimesse di parenti all’estero, una stanza da affittare agli stranieri o altre attività con il turismo. Il peso nacional vale poco e in salario medio fa una quindicina di dollari al mese. Anche un medico non ne guadagna più di una quarantina. “Ma abbiamo la libreta. Con quella ci spetta l’indispensabile: riso, zucchero, pasta… anche le sigarette”. Lo Stato, però, non sempre manda derrate a sufficienza, aggiunge rassegnato. Il sapone non è mai sufficiente, per esempio, e molte mamme me ne chiedono per i loro neonati.
La televisione, tra un gracchio e l’altro, dice che ormai ci siamo. Gustav lambisce le coste del sud. A Santiago hanno evacuato. Girano immagini di strade come torrenti, vento grigio e serrande abbassate. “Presto arriverà qui a Trinidad”, sentenzia ferale.
La traiettoria più probabile sarà verso occidente. Nella strettoia del Canale dello Yucatan e poi su, verso gli States. Uno dei suoi corridoi preferiti.

Per me: direzione l’Avana. Là in città, sarò al sicuro, almeno spero. La casa particular (o affittacamere) dove mi ospito spicca antica e restaurata tra i mille edifici pericolanti del quartiere di l’Avana Centro, dove i decenni d’abbandono hanno segnato come un bombardamento e le pozzanghere si alternano ai mucchi di rifiuti spazzati da cani rognosi. Qui, se il vento spinge, crolla tutto. L’appartamento è al pianterreno, zeppo di residuati caribici, mobili antichi decorati a figure d’indios e porcellane. “È la mia piccola collezione”, dice Dinorah, la padrona, allegra ti-procuro-tutto-io. C’è persino un biliardo. Miguel, il marito, e Manuel, l’anziano aiutante spagnolo, l’affiancano nel delicato ufficio d’intrattener stranieri.
Sabato mattina. Cielo cupo. “Arriva oggi!”, annuncia Miguel sventolandomi tra il naso e il caffè la prima pagina del Granma, lo scarno giornale ufficiale del partito comunista cubano. Il disegno non lascia spazio a dubbi. Un cono inquietante attraversa tutta la porzione occidentale dell’isola. E avanza a forza 4!
Prima che metta piede in strada, Miguel mi raccomanda: “È venuto l’ispettore statale. È obbligatorio rientrare per le cinque. Non camminare sotto i balconi e ricorda che i trasporti sono sospesi dalle quattro”. Santo controllo statale!
Per le strade è il panico, o la festa, tra raffiche di vento spaccaombrelli e schiaffi di pioggia. È un giorno speciale. Sono aperti solo gli alimentari, solo fino all’una. Si corre a fare approvvigionamenti come in guerra.
A differenza del giorno prima, sull’uscio delle case non c’è più nessuno e in pochi sono rimasti a popolare i balconi, sempre zeppi.
Niente bar. Niente ristoranti. Niente musei. Niente. Tutti hanno fretta di fare festa e andarsene a rifugiarsi a casa.
Nel grigio teso, prima delle quattro le strade sono quasi deserte. In centro, chi è rimasto si accalca sotto i portici.
A casa dei miei ospiti non si sente quasi nulla. Tutto passa liscio. Qualche ululato tra le fessure. Nulla di più. Siamo ben riparati, e poi, l’occhio del ciclone è a cento chilometri, non può far troppi danni, qui.
Dinorah, fuma e va a dormire. Miguel, fuma e ammazza il tempo tra i racconti della guerra in Angola di trent’anni fa. Ci ha sempre creduto nella rivoluzione, lui. Manuel fuma, e ammette la sua fuga del ’57 dalla Spagna franchista verso ideali d’uguaglianza e una moglie mulatta.

Io mi adeguo, mi fumo il Cohiba che volevo portare per ricordo e mi acquatto nel letto.
La domenica c’è il sole. “Gustav ha fatto fuori l’Isola della Juventud e tutta Pinar del Rio”, annuncia il telegiornale. Danni alle cose, ma nessun morto.
“Ora vedremo come se la caveranno in Louisiana”, dice orgoglioso Miguel.
“Il nostro governo, sarà quel che sarà, ma a noi ci tiene!”.