Gli esordi di Claudio Damiani

Damiani rammenta di aver iniziato a scrivere intorno ai diciassette anni, verso la fine del liceo, in stile avanguardistico, definendo successivamente la propria produzione “cose avanguardistiche illeggibili, che andavano allora” (Calanna 2013). L’inizio dell’attività poetica non si è verificato grazie ad una ‘occasione precisa’, ma, semplicemente, ricorda Damiani, “ho cominciato a leggere poesia e nello stesso tempo a scrivere” (Damiani 2012).

I primi componimenti

Come ricordato da Buffoni l’esordio poetico di Damiani fu precoce e autorevole. Infatti, nel 1978 fu presente in Nuovi argomenti, grazie ad Attilio Bertolucci. In un ambiente colmo di neo-orfismo e gravato dallo sperimentalismo, Bertolucci aveva ammirato di Damiani l’attenzione alla tradizione petrarchesca e ai maestri del ‘900 italiano, Caproni soprattutto (Buffoni 1992). Buffoni riporta i seguenti distici: “nell’acqua l’acqua portano le bimbe/alle bimbe che piangono nell’acqua/hanno ceste celesti e con che attenti/dentini addenta il trasparente bello/l’acqua lavata in ceste di acqua dolce/goccia in gocce celesti dalle ceste”.

Evidente nei versi sciolti l’uso dell’anafora e dell’allitterazione, abbastanza costanti nell’intera produzione di Damiani (le anafore in particolare), ma qui esasperate al massimo, con una ripetizione continua di suoni e concetti. Come si vede ‘acqua’ ricorre cinque volte, di cui tre nel primo distico, sono numerose le allitterazioni (‘ceste celesti’…’dentini addenta’), fino all’anafora ‘goccia-gocce’. 

Rileggendo le sue prime poesie uscite su Nuovi Argomenti, Damiani sottolinea come fossero ancora “un po’ avanguardistiche” (Damiani 2016, p.3). Adoperava l’endecasillabo e già vi era l’uso di “parole semplici pronunciate con chiarezza, ma mischiavo il petrarchismo con il petel avanguardistico, e le tautologie sue tipiche” (Ibidem), come mostra la poesia sopra riportata (Ibidem). Inoltre, sempre secondo il giudizio che Damiani dà di se stesso, “si sente anche qualcosa di Caproni che amavo molto, che alle origini italiane torna, e a cavalcanti con la sua musica limpida, e apre a una rilettura di Petrarca, e si sente un po’ di Penna, che anche amavo molto” (Ibidem).

Damiani afferma di essere stato, nel 1975, a 18 anni, avanguardista; mentre successivamente, grazie alla lettura di Petrarca, e alla conoscenza di Beppe Salvia e degli altri amici di Braci venne ‘conciliandosi col proprio tempo’, adottando una poetica improntata alla chiarezza ed alla semplicità, e della lingua, e dei contenuti (Damiani 2007). 

Braci e la ‘scuola romana’

Le riflessioni di Damiani sulla ‘scuola romana’ e su Braci sono molto simili a quelle di Sica precedentemente analizzate. Damiani sottolinea come lo spirito della sua generazione fosse “il vuoto che avevamo dietro, la mancanza di padri, la mancanza di umanità”. (Damiani 2016, p. 150). Afferma che, a vent’anni, amava Petrarca, la cui lingua gli pareva “molto più nuova e viva di quella degli avanguardisti” (Ibidem): per il poeta romano Petrarca era “un fatto istintivo che amavo fin dal liceo” (Ibidem).

Era dunque la ‘mancanza di padri’ a spingere la generazione di Damiani fuori del ‘Novecento, verso universi lontani che erano, al tempo, considerati tabù; da parte propria Damiani ha ricordato di aver sempre amato, oltre ai latini e i greci, anche i classici cinesi. Sulle ragioni di tali gusti ha poi precisato che “il nostro non era un bisogno di evadere, di cambiar aria: era un bisogno espressivo. Bisognava ritrovare la lingua, che era lì accanto a noi, nei testi sepolti dalle polveri della desertificazione ideologica” (Ibidem).

La critica di Damiani si rivolge dunque contro l’eccessiva ideologicizzazione che aveva finito per creare un deserto e distruggere il tutto.  Ciò che dunque univa la nuova generazione era “il vuoto in cui eravamo cresciuti, e lo slancio per liberarcene: il desiderio di una comunità, di una lingua comune, di una civiltà. Sentivamo che una nuova era stava per nascere […]” (Ibidem).

Il rimando di Damiani è anche a Pascoli, altro autore da riscoprire e da porre accanto ai classici, con l’obiettivo di procedere ad una rigenerazione della propria identità, processo nel quale si incontravano identità e tradizione. “Lingua voleva dire questo: raddrizzare i nomi, chiamare le cose col loro nome, far corrispondere i nomi alle cose e le cose ai nomi. Mentre l’ideologia era il contrario […] (Damiani 2016, p. 151).

Diversi argomenti e temi vennero dunque ripresi dalla tradizione, stante, nell’attualità, l’impossibilità di parlarne. Tra gli argomenti tabù, al tempo, vi era la natura, in quanto “Era dai tempi di Pascoli e d’Annunzio che non si poteva parlare di natura” (Ibidem) o l’amore, per parlare del quale “bisognava proprio essere antinovecentisti dichiarati” (Ibidem). Analogamente, erano poco graditi temi quali la famiglia, il padre. Damiani rivendica l’attenzione rivolta al ‘mondo circostante’, a ciò che è più vicino: “Le cose intorno a noi, accanto a noi, non emblematiche o allusive, come tanta ideologia ci mostrava, ma compagne della nostra vita, intere e vere come la nostra vita”(Ibidem). 

In questo cammino verso la parola ‘ritrovata’, gli antinovecentisti, Saba, Penna, Caproni, erano i naturali compagni di viaggio verso il recupero della grande tradizione italiana. Tuttavia, bisognava ancora recuperare delle altre figure della tradizione italiana che erano state colpevolmente abbandonata, ovvero, soprattutto, Pascoli e d’Annunzio.

Risultato immagini per rivista Prato Pagano

Prato Pagano, n.1, gennaio 1979-1980

Ricorda Damiani che quando comparvero le Lettere musive di Beppe Salvia anche questo tabù era stato superato e finalmente si era proceduto al ‘recupero’ di Pascoli, compreso nella sua grandezza: “Era riaccolta la lingua sua e quella di d’Annunzio, che furono un prodigioso, meraviglioso tuffo nella grande tradizione infinita, nell’oceano dell’italiano […] (Damiani 2016, p. 152). Quello che Damiani e gli altri poeti cercavano e recuperavano nel passato era “l’idea di una lingua che ritrova la natura e la musica, la vita, e che si riallaccia alla vitalità e vivacità, alla creatività della lingua dei nostri primi grandi poeti” (Ibidem).

In particolare, Damiani ha spesso sottolineato il ruolo di Salvia – anche molto recentemente – che, pur essendo morto giovanissimo, a trent’anni, nondimeno “in quei pochi anni, prima metà degli Ottanta, ha fatto in tempo a cambiare la poesia italiana. Riallacciandosi a Pascoli e a D’Annunzio, ma anche ai classici italiani e non solo, ha riportato la lingua nella poesia, che l’aveva persa. E con questa lingua ha ricreato un mondo, di dolore e impotenza, ma anche di stupore e speranza. Salvia, e con lui “Braci”, la rivista che abbiamo fatto insieme in quegli anni, esce dal postmoderno e entra in un’età nuova, di cui tuttora pochissimi si sono accorti” (Damiani 2020).

Da punto di vista della lingua Damiani sottolinea come la sua generazione si sentisse molto lontana sia dall’analogia, sia dalla metafora, essendo invece particolarmente vicina alla discorsività ed alla claritas dei latini, e dei cinesi, al sentirsi vicina alle cose e ai luoghi. Erano dunque molto lontani dal “manierismo copia e incolla” poi utilizzato da Valduga, oppure dalla goliardia dei neovanguardisti dell’ultima ora che “non avendo niente da fare, oltre che da dire, giocavano con terzine, strambotti sestine ecc” (Ibidem).  

In un colloquio ha ulteriormente specificato questi aspetti: “l’idea di poesia che ci univa era nel non avere un’idea di poesia. Era, sostanzialmente, il desiderio di leggerla, la poesia. Svestirsi dell’ideologia e accogliere la poesia. E incontrammo la lingua. Fu come una nuova scuola per noi, un abc di mutuo insegnamento, un ‘non è mai troppo tardi’ senza maestri in carne ed ossa, ma con solo testi, un po’ come successe agli antichi umanisti italiani” (Gubert). 

Sebbene in Braci non mancassero differenze individuali, tuttavia i motivi comuni di fondo erano molto forti. “I maestri in comune erano fondamentalmente i classici in generale, quelli italiani dei secoli d’oro, i secoli della lingua, anzitutto, da noi tutti venerati, e i latini e greci (io avevo già la fissa dei classici cinesi). Dei moderni, anziché Leopardi, mettevamo al centro Pascoli e D’Annunzio (Beppe e io soprattutto), ma ad esempio eravamo tutti d’accordo su Keats, con la sua vivacità e immediatezza e il suo classicismo di fanciullo. C’erano, sì, varie differenze, scudiero dei latini ero più che altro io, gli elegiaci soprattutto, Giselda Pontesilli era più platonizzante, Gino era più per Carducci che per Pascoli, più per Rosmini e Gioberti, Arnaldo spaziava nella teologia universale. Guardavamo però tutti alla civiltà umanistica e alla ‘gentilezza italiana’ come a un faro accecante (Gubert).

Complessivamente, in Braci non si trova alcun manifesto o esplicita dichiarazione d’intenti, ma era piuttosto un luogo d’incontro di autori che, come si è visto, rigettavano ogni ipotesi teorica in quanto passibile di ideologicizzazione della poesia, e la ‘critica all’ideologia’ era il primo obiettivo dei diversi autori. Poche anche le recensioni, i saggi e gli scritti teorici, ad opera soprattutto di Colasanti; la ricerca del recupero della centralità della parola, la riconquista dell’ordine e della semplicità perdute del poetare pare rimandare ad un’armonia classica, oraziana e – secondo Colasanti – ad una concezione francescana e pauperistica della poesia.

La prima poesia pubblicata da Damiani sulla rivista è L’ape grigia, presente nel numero 1, anno I del 25 novembre 1980. La riportiamo dato che si tratta di uno dei primissimi componimenti poetici dell’autore: “Sull’ape grigia una fragile bimba/Mi salutò tra difficili ascese./La pastora di lacrime mi prese/Con sé nel vuoto mondo della bomba./

Sempre nel primo fascicolo venivano pubblicati degli altri componimenti, ovvero: Il giorno andava (Il giorno andava dopo tanta acqua/dietro la scuola di campagna a stare. Guardammo insieme dal muretto il mare/azzurro e i campi spruzzati dall’acqua); Nacqui in un luogo; Tu se così leggera e trasparente (con un disegno sopra la poesia); Mi sveglio e vedo che il mattino è in cielo (con un disegno sotto la poesia); Piede non vede.

Bibliografia

Buffoni F. Prefazione a La via a Fraturno, in, Poesia contemporanea. Secondo quaderno italiano, Guerini & Associati, Milano, 1992

Calanna G., Intervista al poeta Claudio Damiani, in, L’EtroVerso, 15 settembre 2013.

Colasanti A., Discorsi sulla poesia, n.0, 1984, pp. 14 e segg.

Colasanti A., Sul nuovo e sull’antico, luglio 1983, p.3 e segg. 

Damiani C., Dentro la natura, intervista a C. Damiani di Di Palmo P., in, Succede oggi, 16 marzo 2020.

Damiani C., Intervista, in, Sincronie, n.21-22, gennaio-dicembre 2007.

Damiani C., La difficile facilità, Lamantana, Roma, 2016, p. 150.

Damiani C., Se la poetica è qualcosa che sta prima del testo, io non ho nessuna poetica, in, L’albatros, n.2, maggio 2012.

Damiani C.,, La difficile facilità, Lamantana, Roma, 2016.

Gubert C. (a cura di), Dialogo con Claudio Damiani, in, Circe, Catalogo Informativo Riviste Culturali di Trento, Università di Trento.